Non mi piace, ma non lo ammetterò mai: la fedeltà forzata dei gamer

la fedeltà forzata dei gamer editoriale

Gli psicologi lo chiamano pregiudizio cognitivo, anche se molti fanno riferimento ad esso come bias di conferma e ognuno di noi ne è in qualche modo vittima. Sebbene non si tratti di una patologia, né di un disturbo psichico vero e proprio, questo piccolo bug mentale è in grado di attivare un meccanismo diabolico che, nel momento in cui tocca elaborare un giudizio, ci spinge a concentrare la nostra attenzione su tutti gli elementi che confermino le nostre convinzioni pregresse, soffocando in parallelo ogni eventuale contraddittorio. Tradotto in soldoni, si tratta di quello sforzo più o meno inconscio che facciamo per tenere fede alle nostre ideologie politiche quando i rispettivi rappresentanti sostengono tesi che, se esposte dall’opposizione, non condivideremmo o, nel nostro caso, quando ci facciamo piacere un videogame a forza perché è stato realizzato dal nostro idolo, firmato dal nostro brand preferito o magari incensato dall’influencer di cui abbiamo più stima.

Probabilmente non tutti sarebbero disposti ad ammetterlo in pubblico, ma questa storia si ripete con una costanza tale da distorcere completamente la realtà che ci passa sotto il naso e spingerci nel contempo a trascorrere ore ed ore giocando a titoli che, sotto sotto, non apprezziamo quanto avremmo desiderato. Come facile intuire, è proprio a questo punto che la faccenda assume toni paradossali: piuttosto che chiederci se troviamo l’esperienza divertente, preferiamo difatti ignorare il nostro istinto e rimpiazzare il naturale impulso di smettere con un’ostinata ricerca di ogni dettaglio che possa rinsaldare aspettative meramente idealistiche. Nel mentre, il coefficiente di evasione alla base del concetto di tempo libero precipita tuttavia sotto i valori minimi di soddisfazione, attribuendo ad un’attività piacevole gli onerosi schemi di un lavoro vero e proprio. Ma come siamo potuti arrivare a toccare tali vette di autolesionismo? Sembrano passati secoli, eppure c’è stata un’epoca in cui eravamo capaci di decidere se un gioco valesse la candela in una manciata di secondi e senza alcun condizionamento esterno di sorta: succedeva quando eravamo bambini e non avevamo ancora preso l’odioso vizio di intellettualizzare il concetto di divertimento e i nostri gusti in fatto di videogame. Pensateci bene: quando è stata l’ultima volta che avete valutato un videogame senza far prima riferimento a simpatie personali, ai “colori” che indossiamo, alle percentuali di meta-valutazione e a persino sfumature di ordine socio-politico? Difficile identificare una data, vero? Ma una cosa è certa: è stato troppo tempo fa. Ne deriva una verità dura, con cui ognuno di noi è però chiamato a fare i conti e cioè che, a ben vedere, non è più così facile capire se un videogioco ci piaccia o meno. O peggio, scegliamo di amarlo oppure detestarlo a priori e in base a valutazioni analitiche di ogni tipo, lasciando che il puro feedback dell’esperienza resti sempre ai margini dell’equazione. Si sarebbe a questo punto tentati di sostenere che, a forza di assecondare il bias, abbiamo dimenticato persino il vero motivo per cui ci attacchiamo a un pad ed è per questa ragione che urge intraprendere un’azione rivoluzionaria: dobbiamo afferrare il pregiudizio cognitivo per il bavero della sua veste talare e urlargli nei timpani che la sua egemonia sulla nostra capacità di giudizio è finita. Solo riappropriandoci della libertà di ammettere che il nostro brand preferito possa deluderci e che il più odioso tra i game designer abbia tirato fuori un gioiello dal cilindro potremo infatti riscoprire il senso ultimo dell’esperienza videoludica. Proviamoci dunque insieme e senza temere di deludere qualcuno o tradire chissà quali ideali, giacché niente di tutto ciò ha senso. Non a caso, l’essere umano gioca proprio per assaporare il temporaneo brio di sottrarsi a tutte le sovrastrutture socio-culturali che segnano la sua quotidianità e permettere alle sensazioni di fluire libere… Viceversa tanto varrebbe restare a scuola o in ufficio a fare dello straordinario.

Spoiler: se leggendo questo editoriale vi siete scherniti rivendicando di non essere mai cascati nella trappola del pregiudizio cognitivo, c’è una probabilità molto alta che ci siate finiti dentro proprio adesso, perché è proprio così che funziona il bias: se sei convinto di non essere influenzabile da alcun fattore esterno, esso farà di tutto per trovare esempi, episodi e circostanze che lo confermino. Ed è proprio per questa ragione che riuscire a liberarsene sarebbe una conquista monumentale non solo per i gamer, ma per la nostra specie in generale.

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