Non compriamo videogame, ma promesse a prezzo pieno.

Editoriale Non compriamo videogame ma promesse a prezzo pieno

Quando, nell’ormai lontano 1997, la Origin Systems fu costretta a rilasciare una patch postuma al lancio di Ultima IX per correggere una serie di bug che ne compromettevano il funzionamento, il popolo dei videogiocatori insorse come s’era probabilmente visto solo ai tempi di E.T. The Extra Terrestrial. La sola idea che un’azienda di quel calibro si fosse permessa di spedire sugli scaffali dei negozi un prodotto guasto costituiva, a tutti effetti, un’imperdonabile violazione del patto di fiducia tra produttore e consumatore, che avrebbe maturato conseguenze in grado di estendersi fino ai cancelli dei tribunali.

Negli ultimi trent’anni quello che sarebbe dovuto rimanere un’incidente isolato, per non dire una delle pagine più oscure della storia videoludica, si è tuttavia trasformato in un malsano trend commerciale che, patch dopo patch, aggiornamento dopo aggiornamento, è germogliato in un status quo surreale nell’ambito del quale l’eventualità che un videogame possa arrivare sul mercato incompleto, o addirittura malfunzionante, venga interpretata dagli acquirenti come una semplice costante. L’indolente forma di rassegnazione con cui i videogiocatori abbiano accettato gli estremi del paradosso lascia francamente stupiti, tanto quanto costatare che quella del gaming sia l’unica industria del mondo in cui sia possibile vendere a prezzo pieno merce difettata senza subire conseguenze cui andrebbe incontro qualsiasi altro imprenditore. Nessuno spettatore riterrebbe in effetti accettabile pagare il biglietto per assistere a un nuovo film degli Avengers cui non fossero stati ancora implementati gli effetti speciali e, di certo, nessun cliente andrebbe a cena da un ristoratore che pretendesse di far pagare a prezzo pieno un panino vuoto, con la promessa di ficcarci dentro un hamburger due settimane dopo!

I numeri del paradosso e le loro conseguenze

Al di là di ogni possibile parallelo, è fondamentale specificare che l’entità della problematica travalichi di molto i confini tracciati da casi emblematici come Cyberpunk 2077, Mindseye o le versioni PC di The Last of Us e Borderlands 4. Sebbene questi prodotti siano stati messi in vendita in uno stato tale da scuotere anche l’animo dei più indulgenti, i numeri legati a questa prassi ci raccontano di un sistema profondamente compromess. Uno studio condotto da Game Developer Research su 200 titoli distribuiti tra il 2020 e il 2023 sottolinea, ad esempio, che il 72% dei videogame rilasciati sul mercato abbia necessitato di patch correttive entro le prime due settimane dal lancio: di questi oltre il 40% è stato peraltro giudicato come tecnicamente incompleto alla soglia del Day One anche se il rispettivo prezzo rispecchiasse il picco della propria fascia commerciale. Logicamente, dati del genere non hanno solo carattere statistico, ma finiscono anche e soprattutto per compromettere seriamente la credibilità dell’intera industria: se produttori e sviluppatori aspirano davvero ad essere riconosciuti quali divulgatori di un bene culturale al pari di cinema, letteratura ed arte figurata, una radicale inversione di rotta parrebbe in tal senso imperativa. Checché se ne dica, la vendita di prodotti difettosi, lacunosi o incompiuti non è del resto una mera questione tecnica, bensì un problema etico: gli equilibri di un’economia sana si basano infatti sull’affidabilità dei brand e la fiducia di cui essi godono agli occhi delle masse… E non occorre certo un oracolo per scoprire che la fiducia perduta non si recuperi con una patch!

Parola d’ordine: trasparenza

Una volta inquadrato il nocciolo della questione, arriva puntuale l’onere di porsi domande scomode, molte delle quali hanno carattere strategico: quale approccio commerciale permetterebbe, ad esempio, di trovare un valido compromesso tra qualità del prodotto e tempi di produzione? La conditio sine qua non per interrompere il circolo vizioso non può che essere la trasparenza, intesa come onestà intellettuale. Occorre, in tal senso, chiamare i prodotti che vengono messi in vendita per quello che sono e non per quello che sarebbero dovuti essere: oltre a evidenziare la propria natura di early access, un titolo incompiuto al Day One dovrebbe vantare un prezzo amichevole, per poi monetizzare gradualmente le rispettive rifiniture. Sarebbe, tra l’altro, opportuno dare una sforbiciata alle cavillose procedure di rimborso, così da rimarcare che quest’ultimo sia un diritto dell’acquirente e non un favore che gli venga elargito dal produttore. Un’ulteriore dimostrazione di buonafede potrebbe poi consistere nel proporre anticipazioni più realistiche, senza seguitare a promettere la luna in fase di trailer, pur sapendo che l’obiettivo sia fuori portata. E questo dovrebbe valere anche per l’annuncio delle date di rilascio dei titoli, la cui ingerenza affligge gran parte dei progetti che giungono alla prova del pad con l’aria del cantiere aperto. A questo punto, gli addetti ai lavori ci direbbero che in giro ci sono solo due o tre marchi che possano permettersi di distribuire i propri videogame quando sono davvero pronti. Per quanto i costi di sviluppo possano risultare opprimenti, dubitiamo fortemente che sguinzagliando sul mercato giochi “rotti” i conti finiscano per tornare.

Non essendo nati ieri, sappiamo tutti che le probabilità di un ribaltone sono vicine allo zero: di conseguenza, dobbiamo solo sperare che quando i contorni di quest’assurdità appariranno chiari anche ai colletti bianchi, ci sarà ancora un pubblico disposto a dargli un’altra chance.

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