La radicale differenza tra la realtà percepita dalle masse e quella descritta dai numeri

Realtà Percepita editoriale

Gran parte delle opinioni che formuliamo su ciò che ci circonda non sono necessariamente basate sull’effettiva realtà delle cose, bensì sulla percezione che abbiamo maturato della stessa in relazione ad una lunga serie di fattori che spaziano dal contesto socioculturale in cui siamo cresciuti all’influenza delle fonti di informazione, fino alla sensibilità che proviamo verso determinati soggetti. Col tempo, le nostre idee tendono pertanto a consolidarsi in pregiudizi che finiscono per condizionare le nostre azioni e persino le scelte che effettuiamo. In tal senso, sarebbe corretto affermare che ogni qualvolta esprimiamo giudizi o valutazioni, non lo facciamo quasi mai in relazione ad una concezione oggettiva dei fatti, ma sulla base di un’automatica interpretazione soggettiva di questi ultimi. A lungo andare questo processo è chiaramente destinato ad alterare la narrazione di molti eventi chiave, generando il famigerato luogo comune: un parametro affidabile solo in apparenza che, spesso e volentieri, rischia invece di dirottare l’opinione pubblica verso assunti errati, alimentando in molti la pia illusione di conoscere la Verità.

Si stava meglio quando si stava peggio?

Come logico che sia, le conseguenze di questo “bug concettuale” sono trasversali e si riflettono in ogni singola branca d’interesse globale, il che ci porta anche al delicatissimo rapporto tra la community dei videogiocatori e l’industria dei videogame: due realtà congruenti, eppure convolte in un costante conflitto che ha sempre visto i consumatori puntare il dito contro strategie commerciali, campagne di marketing e ogni altra odiosa forma di lucro abbinata alla politica dei produttori.

Uno dei preconcetti più comuni e duri a morire riguardo gli equilibri che determinano detto legame tende a riflettersi nell’ostinata celebrazione di un passato dorato in cui nessuna software house fosse interessata al vile profitto, gli sviluppatori agissero con piglio da ONLUS e i videogame scaturissero soltanto da idee visionarie. Riproposta come un mantra da molti individui che non s’accorgono di star rimpiangendo più le emozioni della perduta gioventù che le meraviglie di un presunto paradiso in pixel, questa narrazione riflette però solo in parte il settore dell’epoca. Benché i primi anni di gaming beneficiassero senz’altro dell’irresistibile fascino della scoperta pionieristica, il videogame costituiva in ogni caso il tramite con cui imprenditori quali Nolan Bushnell e rispettivi competitor puntavano a capitalizzare il prodotto. Come i più lucidi superstiti della cosiddetta “golden age” non mancheranno di ricordare, una discreta fetta dei titoli presenti nel catalogo dei sistemi dell’epoca evidenziava, peraltro, lacune tali da renderli talvolta inutilizzabili… E non stiamo certo parlando delle imbarazzanti performance iniziali di un qualsiasi Cyberpunk 2077 dei giorni nostri, ma di una sconfinata serie produzioni giunte sugli scaffali dei negozi in uno stato che definire improponibile appare eufemistico. Un altro mito da sfatare, sarebbe poi costituito dalla sistematica originalità dei titoli prodotti allora: per ogni capolavoro che avrebbe spianato la strada alla nascita di tanti generi, era in effetti possibile contare decine di cloni dozzinali e oscene interpretazioni del gameplay che aveva favorito a hit quali Pac-Man, Zaxxon, Pitfall, Commando, Pit-Stop e Mario Bros l’appellativo di capiscuola.

Se state pensando che negli anni ’90 le cose sarebbero cambiate, è opportuno fare ulteriore chiarezza: specialmente nel primo quinquennio della decade, sistemi come Amiga 500, Mega Drive e persino l’immortale Super Nintendo si portarono dietro un’ingombrante zavorra di prodotti scadenti e speculazioni commerciali a dir poco discutibili. Quanto all’audacia dei moduli di gioco, la situazione non era poi così diversa da oggi: mentre Capcom distribuiva a ritmi regolari, e a prezzo pieno, nuove edizioni “speciali” di Street Fighter II, gli scaffali dei negozi venivano infatti travolti da un’ondata di picchiaduro di proporzioni bibliche. E il fatto che sul versante PC accadesse lo stesso con Doom e le sue innumerevoli imitazioni,certifica una certa continuità con le politiche “predatorie” di molte aziende contemporanee. Con l’arrivo della Playstation – nessuno lo può negare – l’industria dei videogame sarebbe andata incontro a cambiamenti profondi, ma dovremmo avere la lucidità di sottolineare che questi ultimi interessarono più i numeri, il linguaggio e le dimensioni del business, rispetto alla sua intima natura. Di fatto, l’intero movimento videoludico ha, in realtà, rispettato sempre tutte le più ordinarie leggi di mercato e i princìpi base su cui esso si regge prevedevano, ieri come oggi, l’attuazione di tutta una serie di iniziative volte a individuare trend e cavalcarli allo scopo di fidelizzare il maggior numero di acquirenti possibile. Va da sé che la celebrazione di un passato orbo di qualsiasi direttiva consumistica appartenga più ad una romantica rielaborazione dei ricordi personali di chi ebbe l’opportunità di viverlo. Del resto, nei videogame come in politica, musica, cinema o in religione, essi restano pur sempre frutto di una memoria selettiva atta ad esaltare gli aspetti positivi del tempo che fu, relegando ogni accezione negativa ai margini del pensiero.

La parola ai numeri

Ma se a livello umano è sostanzialmente impossibile maturare una visione del tutto oggettiva delle cose, come possiamo stabilire la corretta dimensione della realtà? Una soluzione magari impersonale, senz’altro antidemocratica, ma alquanto affidabile ce la forniscono i numeri declinati nella dimensione statistica della matematica. Analizzando dati e percentuali relativi all’industria attuale, risulta in effetti possibile sfatare già diversi luoghi comuni che alterano la nostra percezione dello scenario. Andando in giro per social è, ad esempio, facile imbattersi in tanti utenti che definiscono l’attuale gaming industry come un colosso in stato comatoso che vive di soli remake e remaster: numeri alla mano, scopriamo invece che questo genere di operazioni costituisca soltanto lo 0,75% dell’offerta videoludica annuale. Il preconcetto che spinge i più a sostenere una tesi smentita dall’aritmetica potrebbe essere, in tal senso, legato alla maggiore visibilità dei progetti interessati: trattandosi nella stragrande maggioranza dei casi di riedizioni di grandi classici, stampa specializzata, influencer e community annesse finirebbero, in altre parole, per conferirgli maggior rilevanza rispetto al resto.

Un altro pregiudizio errato che inquina i nostri pareri è che l’industria attuale non lasci spazio alla creatività o all’originalità dei sviluppatori: una tesi che appare verosimile finché si guarda all’olimpo miliardario dei Tripla A, la quale viene però smentita dalle statistiche. Nel corso degli ultimi dieci anni si registra, infatti, un deciso incremento della produzione di titoli basati su concept sperimentali rispetto al decennio precedente, nonché un enorme aumento della produzione Indie che costituisce, per natura, la principale fucina delle novità. Il ventaglio di opportunità d’acquisto cui ogni videogiocatore ha potenzialmente accesso al giorno d’oggi è, tra l’altro, il più ampio mai rilevato nell’intera storia del settore e non certo in ottica allegorica. Si stima, per l’appunto, che nel 2024, sulla sola piattaforma Steam, siano stati distribuiti circa 18.945 giochi, ovvero ben 3000 unità in più di quante ne siano state prodotte tra il 1990 e il 1999! Aggiungendo ai dati provenienti dalla piattaforma Valve quelli legati ai cataloghi Epic, Microsoft, Sony, Nintendo e alle più attive major del settore, scopriamo così che durante la scorsa annata siano usciti oltre 35.000 titoli, ripartiti in un numero tale di generi, sottogeneri, mash-up e varianti multiplayer da scavare un divario praticamente incolmabile tra il coefficiente di varietà dell’offerta attuale e quello relativo ai famosi Anni d’Oro di cui sopra. Logicamente, una quantità sesquipedale di questi prodotti non raggiungerà la sufficienza per ragioni concettuali o tecniche, ciò nonostante le dimensioni dello scarto restano così ampie da non ammettere repliche.

Beninteso, nessuno intende usare questi numeri per sostenere che l’attuale mercato dei videogame non sia afflitto da criticità gravi e, come sapete, sono mesi che continuiamo a rimarcarle. Parimenti, non è nostra intenzione suggerire che la storia sia tutta da riscrivere: questa riflessione va dunque interpretata come una sorta di indagine vola confermare il fatto che, spesso, ci si ritrovi a trarre conclusioni categoriche sulla base di una percezione della realtà che non trova conferma nei numeri che la raccontano. Ne consegue un invito corale a guardarci dai luoghi comuni, per dedicarci ad una ricerca più approfondita della verità. Quella che si cela tra le righe dei roboanti annunci del main-stream; quella che sfugge alla vox populi e, in ultima analisi, quella che ci invita a ritrovare un po’ di fiducia nello scenario contemporaneo, giacché, per quanto se ne dica, il mondo videoludico e, per estensione, il videogame in senso assoluto, siano più vivi che mai.

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