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Bioshock: Infinite è la terza e ultima perla della collana targata 2K. Ultima anche in senso letterale, considerato come dopo l’uscita del gioco il team sia stato disciolto e che se mai 2K avesse intenzione di far proseguire la serie dovrà per forza di cose affidarla a dei designer totalmente differenti, con pro e contro del caso.
Come avevamo già anticipato, Infinite è il vero secondo capitolo della saga, colui che conquista l’eredità del capostipite e se ne fa carico. In tal merito, infatti, è quasi strano notare come buona parte delle meccaniche di gameplay, o dei suoi bilanciamenti, siano stati riprogettati praticamente da zero. La base è la medesima, ma la messa in pratica e il feeling totalmente differente, tanto sull’aspetto visivo quanto su quello del gameplay più puro.
Il più grande pregio di Infinite, inutile dirlo, è ancora una volta la sceneggiatura. Nonostante il passaggio dai bui recessi dell’oceano a una coloratissima città sulle nuvole, si riescono comunque a notare innumerevoli punti in comune: una metropoli che sfida le leggi di natura e gravità, così come un folle leader che si illude di fare il bene del mondo. L’intreccio di Infinite, tra l’altro, è molto più difficile da seguire di quello di qualunque altro Bioshock.
Dopotutto, esordisce come un lunghissimo sermone religioso e va a impelagarsi ben presto in fisica, metafisica, teoria quantistica, universi paralleli e tanto altro ancora. Per sperare di arrivare ai titoli di coda con almeno un 50% della comprensione del totale, è richiesta comunque un’attenzione ben superiore alla media, oltre che una minuzia nell’esplorazione davvero certosina. Collezionare i vari audio-diari sparsi in giro, così come soffermarsi a interpretare vetrate, iscrizioni e quadri, non va assolutamente sottovalutato.
Il risvolto della medaglia è che, l’avventura in sé, risulta molto più lineare e debole che in passato. Infinite è anche un po’ frutto dei suoi tempi, uno sparatutto maggiormente classico che richiede davvero poca materia grigia, anche alle difficoltà più alte. Munizioni in quantità industriali, Plasmidi (qui Vigor) molto meno fantasiosi e un grandissimo (quasi indigesto) numero di sparatorie lo rendono più scontato dell’originale, anche se indubbiamente più ritmato. L’assenza (quasi) totale delle tinte horror che da sempre permeano la saga, poi, potrebbe far storcere il naso a più di un purista.
esordisce come un lunghissimo sermone religioso e va a impelagarsi ben presto in fisica, metafisica, teoria quantistica, universi paralleli e tanto altro ancora.