Come avevamo anticipato nella nostra ultima anteprima, scrivere una recensione per Ghostwire Tokyo si è rivelata, effettivamente, una sfida professionale non da poco. L’atipico fps di Tango Gameworks è infatti un titolo che presenta un ventaglio di contraddizioni che lo rendono un gioco unico nel suo genere e nel panorama giapponese.
Non potevamo aspettarci qualcosa di diverso: vuoi perché dietro alla concettualizzazione di questa IP avevamo un creative director come Ikumi Nakamura, o vuoi perché c’era un executive producer di lusso come Shinji Mikami.
In una Tokyo completamente devastata da strani fenomeni paranormali, seguiremo le vicissitudini del giovane Akito, che si ritroverà ad essere posseduto dallo spirito di KK (un caustico acchiappafantasmi), dopo essere sopravvissuto a un incidente mortale. I due coprotagonisti instaureranno una sinergica collaborazione allo scopo di salvare la sorella di Akito, rapita da una figura apparentemente demoniaca: un McGuffin narrativo ottimamente costruito e messo in scena incredibilmente bene che serve da spunto per scoprire cosa sia realmente successo alla città di Tokyo e ai suoi abitanti.
La missione principale è caratterizzata da un ritmo narrativo serratissimo, che raggiunge alcuni picchi assolutamente al cardiopalma grazie a un’integrazione profondissima tra direzione artistica, level design e combat system: in molti casi, Ghostwire Tokyo offre scorci di gioco paragonabili all’arte contemporanea e alla cinematografia sperimentale.
Anche molte delle missioni secondarie offrono una qualità produttiva molto simile a quella profusa nella main quest, e si alternano nell’offrire alternativamente guizzi votati alla pura estetica o a spaccati di vita reali poco conosciuti al grande pubblico videogiocante.
Quest’ultimo punto è una delle criticità che abbiamo riscontrato giocando il titolo: alcune missioni possono risultare delle mere fetch quest a causa della loro struttura, ma acquisiscono valore di racconto ambientale perché trattano, ad esempio, delle conseguenze della riforma del lavoro nipponico. Informazioni che gli sviluppatori tendono a dare per scontate ma che, effettivamente, non sono alla portata di tutti.
In realtà, è un elemento che non ci sentiamo di punire perché, complessivamente, Tango Gameworks è riuscita a creare una Tokyo che parla sia agli amanti degli anime e manga e sia a chi conosce il Giappone grazie a Fosco Maraini, Katane di Giorgia Pompili o Oriente Furioso di Pio d’Emilia.
In buona sostanza, quello di Ghostwire Tokyo è un Sol Levante che vuole liberarsi da una rappresentazione “confortevole” di sé stesso, offrendo elementi di riflessione contemporanei e reali oltre a quelli tradizionali e fantastici.
Un altro fattore da tenere in considerazione è che, pur essendo un open world, la mappa non è eccessivamente estesa e si risolve in meno tempo di quanto ci si aspetterebbe (tra le 20 e le 30 ore), quindi la trama si svolge con una velocità molto più intensa rispetto a quanto il mercato offre ultimamente.
Ciononostante Tango è riuscita a costruire l’azione e il flusso narrativo in maniera coerente e senza perdere tensione drammatica, soprattutto grazie a un’ottima gestione degli unici due protagonisti presenti, Akito e KK, se escludiamo la misteriosa figura di Hannya. In effetti, Ghostwire Tokyo non presenta una lunga lista di personaggi comprimari, se non attraverso l’ascolto delle loro voci al telefono, o le descrizioni indirette di essi attraverso le parole di KK, che rinforza l’idea che sta alla base della sceneggiatura: la dissoluzione nel nulla di un’intera comunità.
Sarebbe ipocrita non ipotizzare che questa produzione abbia preso a piene mani da medium diversi dal videogioco, come il cinema: in particolare abbiamo avvertito con forza il potere evocativo del film horror Kairo (conosciuto anche come Pulse) di Kiyoshi Kurosawa, ravvisabile in alcuni temi come la solitudine, l’accettazione della morte e l’impatto sociologico della tecnologia nella società ma anche nell’immaginario visivo stesso.
Il gioco possiede un doppiaggio in italiano di sufficiente qualità, ma che ci ha fatto preferire quello originale in giapponese. La colonna sonora concentra la sua forza espressiva in particolar modo durante gli scontri, e risulta essere una commistione tra musica tradizionale ed elettronica.
L’analisi del gameplay è sicuramente il punto più critico del titolo, perché presenta parecchi elementi old school che solo in parte vengono rielaborati grazie alla profonda connessione con il comparto artistico, e sicuramente sarà oggetto di lunghissime discussioni da parte della comunità dei giocatori.
Ghostwire Tokyo possiede una delle intro più “traumatizzanti”, in senso positivo, degli ultimi anni: gli sviluppatori hanno decisamente voluto puntare all’azione immediata attraverso un tutorial assolutamente spettacolare in termini visivi e di ritmo, che non solo inizia a introdurci nei primi rudimenti del combattimento ma anche alle prime battute di narrazione.
Un escamotage di qualità che nasconde con grande mestiere la naturale linearità di un’introduzione alle meccaniche di gioco ma che, sfortunatamente, non risulta essere caratteristica pregnante nel prosieguo dell’avventura, soprattutto in riferimento alle sidequest connesse al miglioramento delle caratteristiche offensive.
Ma per spiegare compiutamente queste debolezze, dobbiamo parlare innanzitutto del sistema di combattimento: Ghostwire Tokyo presenta un sistema di attacchi magici elementali (vento, acqua e fuoco) detti Tessitura Eterea, richiamabili in game con una ruota specifica e che vengono lanciati con spettacolari animazioni delle mani assolutamente fluide e istantanee. I colpi disponibili possono essere ripristinati abbattendo i nemici ma anche spaccando i vari ammassi di Etere presenti nella mappa. È possibile espandere il numero di attacchi pregando presso specifiche statue di Jizo nascosti nei vari anfratti cittadini, e potenziarli con il recupero di rosari specifici presso i vari portali Torii.
Oltre a questi attacchi, abbiamo a nostra disposizione quelli che vengono definiti Talismani, ovvero degli attacchi ad area che possono stordire elettricamente, corrodere o richiamare strategicamente i nemici in un punto preciso dell’area di combattimento. Possiamo anche utilizzare un arco che, caricato, può abbattere con un solo colpo i nemici più fastidiosi (come quelli volanti), oppure muoverci tatticamente in stealth. Tra i vari attacchi spicca su tutti la Risonanza, una tecnica particolarmente potente che rallenta ad area i nemici e permette di sconfiggerne in quanti quantità: essa non è utilizzabile a piacere, e si ricarica attraverso l’estrazione dei nuclei vitali degli avversari.
Pad alla mano, gli scontri risultano essere votati alla rapidità e alla velocità di esecuzione, passando in un battibaleno dagli attacchi pesanti di fuoco a quelli leggeri acquatici, o al lancio di trappole elettriche in combo all’uso dell’arco e finisher mêlée, in un contesto visivo cromaticamente spettacolare.
A tutto questo corollario è collegata una schermata di gestione delle abilità in cui possiamo migliorare e potenziare non solo gli attacchi ma anche abilità come la durata del volo, la potenza della parata e il quantitativo di frecce trasportabili. Alcuni di questi upgrade, però, sono collegati al possesso di particolari oggetti, i Magatama, che possono essere recuperati affrontando alcune specifiche missioni secondarie.
Missioni che non spiccano per varietà sia da un punto di vista strutturale sia da un punto di vista estetico: molto spesso si risolvono con un sorvolo tra un palazzo e l’altro o con scontri in ambienti piuttosto ristretti, e per quanto risultino essere “kawaii”, sono pericolosamente vicine a quelle estenuanti fetch quest dal gusto tipicamente giapponese. Ovviamente non tutte le missioni secondarie sono in tal guisa, ma data la natura strettamente funzionale di queste specifiche quest, sarebbe stato opportuno non rendere tediosa la necessaria attività di potenziamento offensivo del nostro Akito.
Ciononostante, molte altre secondarie spiccano per una gestione artistica assolutamente curata al netto della semplicità di design e, in particolar modo, una ci ha lasciato a bocca aperta nel rimirare la conclusione della stessa. Tante altre, invece, sono dedicate al racconto ambientale e introducono tematiche di natura sociale strettamente contemporanee, come il suicidio e i problemi sindacali, o sono incentrate su miti tradizionali e leggende metropolitane in senso lato.
L’esplorazione del mondo di gioco è ovviamente promossa dalla purificazione dei vari portali Torii sparsi per la città, che sbloccano parti di mappa fino a quel momento nascoste da una nebbia maledetta che, piano a piano, svelano una riproduzione assolutamente fedele e straordinaria del quartiere di Shinjuku.
Il gioco permette una navigazione libera delle zone purificate e consente di procedere al recupero/salvataggio degli spiriti vaganti dei cittadini di Tokyo con l’uso di speciali bamboline di carta chiamate Katashiro, che possono essere scaricate facendo una sorta di download presso le tipiche cabine telefoniche nipponiche sparse per la città. Non mancano gli iconici cani di razza Akita Inu con cui sarà possibile interagire sia accarezzandoli sia parlando con loro attraverso la lettura del pensiero, e che daranno informazioni utili su tesori nascosti e quest di vario genere.
Il commercio di consumabili e oggetti di varia natura è affidato alla gestione di simpatici gatti, che con le loro variopinte bancarelle popolano gli angoli della città, ma è possibile recuperare risorse utili anche girovagando per la mappa e raccogliendo, per esempio, le immancabili buste della spesa bianche nipponiche. A sottolineare la cura e l’importanza che ha voluto dare Tango Gameworks al racconto ambientale, anche i consumabili come bevande o prodotti da konbini hanno specifiche descrizioni e donano alcuni bonus come boost di vita o difesa potenziata.
In generale abbiamo trovato la difficoltà non particolarmente elevata, e consigliamo ai giocatori più esperti di scegliere di giocare a livelli superiori a quello consigliato da Tango per poter sfruttare a pieno tutte le opzioni di attacco e difesa presenti. In ogni caso, la fortissima caratterizzazione visiva e la velocità di esecuzione degli attacchi restituisce un combat system unico nel suo genere, fresco e godibile da un punto di vista ludico.
Tecnicamente Ghostwire Tokyo mostra alcuni limiti in termini di resa grafica dei personaggi, ma recupera con la resa e la gestione della luce, e mette a disposizione ben sei modalità grafiche, comprese le classiche performance a 60fps e qualità a 30.
Un discorso a parte vale per gli indicatori a schermo (come la progressione delle missioni o la minimappa) che di default sono in grande quantità, ma è possibile scegliere di disattivarli selezionandoli dalle opzioni di gioco a proprio piacere.
Insomma, Ghostwire Tokyo è un gioco composto da una amalgama ludica assolutamente contraddittoria, dove gli alti sono incredibilmente spettacolari e i bassi incappano in quelli che sono i difetti tipici delle produzioni giapponesi, come le famigerate fetch quest.
Non ci stupirà se l’ultima fatica di Tango Gameworks creerà discussioni infinite tra la community di videogiocatori. Ciononostante, la voglia di creare un gioco profondamente nipponico nelle radici ma diverso da quello che abbiamo sempre visto grazie a un racconto caratterizzato da contemporaneità oltre che dalla classicità della tradizione, insieme ad un corredo visivo e artistico incredibilmente potente e un combat originale, ce lo hanno fatto apprezzare pur consci dei difetti strutturali che il titolo possiede.