Hideo Kojima: genio visionario o fenomeno mediatico?

Hideo Kojima tra genio creativo e autore sopravvalutato

Talenti divisivi: una costante nel mondo dell’arte

Quella dei talenti divisivi è una questione che attraversa da sempre il mondo dell’arte e delle sue declinazioni mediatiche. In buona sostanza, si tratta di autori eclettici, talvolta enigmatici e assai carismatici, riguardo l’operato dei quali pubblico ed esperti finiscono puntualmente per scontrarsi. Di fronte a detti personaggi non esistono mezze misure: o li si ama incondizionatamente o li si detesta visceralmente, il che rende alquanto difficile formulare valutazioni oggettive ed emettere giudizi che non risultino faziosi.

Hideo Kojima: genio creativo o illusione artistica?

In campo videoludico, onore ed onere di rappresentare la categoria ricadono ineluttabilmente sulle spalle di Hideo Kojima. Autore poliedrico, ambizioso e istrionico, il celeberrimo designer nipponico è infatti il fulcro di un enigma che si protrae da oltre trent’anni, la cui soluzione finisce sempre per sfuggirci proprio quando eravamo certi di averla trovata. Sebbene la tentazione di dare una nostra personale risposta alla domanda che dà il titolo a quest’editoriale sia stata forte, preferiamo tuttavia limitarci ad anteporre tesi e antitesi, fornendo conseguentemente a voi lettori il compito di separare la verità dalla menzogna.

Agli occhi dei suoi cultori, Kojima è un innovatore rivoluzionario che ha rivestito un ruolo cruciale nel processo di emancipazione concettuale che ha trasformato un semplice divertissement elettronico nel più completo mezzo d’espressione a disposizione di un artista. Nella sua personale visione del medium, la figura del game designer e del regista si fondono pertanto in una nuova entità creativa libera di porre l’elemento dell’interazione al centro di storie tese ad accorpare sfumature letterarie, pensiero filosofico e critica socioculturale. Sotto questa particolare ottica, il videogame smetterebbe di essere soltanto un mero veicolo di intrattenimento per assumere i connotati di un complesso macchinario narrativo in grado di dar voce a sentimenti, immagini e concetti ideologici. Stando alle parole dei rispettivi sostenitori, quest’approccio al medium conferirebbe ai titoli firmati Kojima uno spessore tale da travalicare la definizione stessa di videogame, per riconfigurarsi sui parametri di una complessa esperienza multisensoriale. Non è del resto un mistero che le sue opere si avvalgano del supporto di affermati professionisti provenienti dal mondo della composizione, della fotografia o della sceneggiatura; e non è ovviamente un caso che, da alcuni anni a questa parte, egli abbia scelto di scritturare attori di livello Hollywoodiano per dar volto ai propri personaggi.

Le critiche a Hideo Kojima: un narratore sopravvalutato?

A fronte di milioni di appassionati che sono pronti a dargli del “Maestro” con lo stesso tono di deferenza che si riserverebbe ad un Sensei vero e proprio, si contrappone una comunità di dimensioni pressoché analoghe secondo cui, Hideo Kojima, sarebbe in realtà più fumo che arrosto. Ben lungi dall’essersi guadagnato il merito di aver scoperto il potenziale artistico del videogame, egli sarebbe una sorta di regista mancato che, impossibilitato ad esprimersi sul grande schermo per limitazioni che evidenzieremo a breve, ha cercato di alterare il DNA del videogioco in modo che esso potesse ricordare i film e garantirgli, di rimando, l’opportunità di entrare nel mondo del cinema da un ingresso secondario. Pur riconoscendogli una certa abilità in termini di game design e un gusto non comune per l’estetica, i suoi detrattori faticano inoltre a legittimare le sue capacità in fatto di soggettistica e scrittura: gli si rivolge, in tal senso, l’accusa di essere un narratore pretenzioso e inconcludente che, di solito, non riesce a reggere il peso delle ambizioni che traspaiono dagli incipit delle sue storie. Piuttosto che richiamare paralleli con David Lynch, Wim Wenders, Alejandro Jodorowski e altri grandi

geni della celluloide, alcuni lo inquadrano più come una versione hi-tech di M. Night Shyamalan a cui mancherebbero sia il dono della sintesi, sia la capacità di fornire risposte esaurienti agli interrogativi che propone. Sommando a dette critiche quelle di tanti appassionati convinti che nelle sue opere si parli troppo e si giochi troppo poco, ne deriverebbe il profilo di un fenomeno sopravvalutato al cui nome molti affiancano appellativi da genio solo perché ritengono di trovarsi di fronte ad una Sfinge 2.0 e sperano che adulandolo finiranno per brillare anch’essi di luce riflessa. Parole dure, forse eccessive, che vengono generalmente proferite da chi non può accettare che il nome di Kojima possa figurare nel gotha del settore al fianco di David Crane, Shigeru Miyamoto, Yu Suzuki, Jeff Minter o Sid Meier.

Un giudizio definitivo è davvero possibile?

A questo punto, sarebbe troppo facile concludere che la verità possa trovarsi nel mezzo, ma al di là dell’integralismo professato da ambo le parti, non possiamo negare che, opportunamente limate dalle accezioni più estreme, entrambe le visioni offrano validi spunti di riflessione. Avendo deciso di lasciare a voi l’ultima parola sulla faccenda, ci concediamo il lusso di chiudere l’editoriale con l’unica vera certezza di cui disponiamo su Hideo-San: si può odiarlo, si può adorarlo, ma nessuno riesce a ignorarlo. E questa, di solito, è una prerogativa dei grandi. Difficilmente la sola fortuna o le cantonate del pubblico durerebbero per tanto tempo.

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