Il Boom dei Simulatori di Lavoro e la sua possibile spiegazione

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Nel corso degli ultimi anni, quello dei work simulator è diventato un genere straordinariamente prolifico che gode di ottima salute anche in termini commerciali: serie come Euro Truck Simulator, Power Wash Simulator, Bus e Train Simulator seguitano infatti da tempo a segnare numeri da hit, per non parlare del celebre Farming Simulator, il quale ha addirittura festeggiato il traguardo dei 30 milioni di copie vendute. Ma cosa spinge così tanti gamer a investire in giochi che riproducono in maniera minuziosa le più comuni attività della sfera professionale? E perché un numero sempre maggiore di utenti preferisce trascorrere ore interpretando autisti, contadini o impiegati, piuttosto che cogliere l’opportunità di esplorare mondi fantastici e vivere esperienze superomistiche?

A quanto pare, la spiegazione potrebbe essere più complessa e stratificata di quanto sembri. Interrogati a riguardo, un pool di giovani sociologi scandinavi ha, ad esempio, provato a fornire una spiegazione concettuale. Si ritiene, ovvero, che questo fenomeno possa essere la conseguenza di una vita lavorativa priva di soddisfazioni, le cui dinamiche sono ormai così frammentarie che, spesso e volentieri, impediscono al lavoratore di toccare con mano il frutto dei propri sforzi. In tal caso, videogame come Farming Simulator offrirebbero l’opportunità di focalizzare obiettivi chiari, ottimizzare il metodo per conseguirli in un contesto privo di rischio effettivo e beneficiare, infine, di risultati tangibili e pertanto appaganti.

Pur trovando questa chiave di lettura piuttosto interessante, permangono tuttavia seri dubbi legati al senso stesso di queste produzioni: se il videogame è il re dei medium di evasione dal logorio della comune esistenza perché mai dovremmo sfruttarlo per riproporre scenari da routine quotidiana? A questa specifica domanda hanno provato a rispondere diversi game designer specializzati nella realizzazione di prodotti di questo tipo, preferendo circoscrivere la chiave di lettura in base al proprio target di riferimento. Non essendo necessariamente insoddisfatto della propria vita lavorativa, l’identikit del videogiocatore interessato a questo tipo di proposta troverebbe più stimolante acquisire “obiettivi credibili nell’ottica di un percorso a misura d’uomo, rispetto ad abbattere orde di zombi e pilotare astronavi”. Stiamo parlando di un cliente che non vuole salvare il mondo né prodigarsi in imprese epiche, la cui soddisfazione consiste nell’ottimizzare le proprie prestazioni nell’ambito di schemi di gioco basati sui criteri di ripetizione e Trial & Error. A ben vedere, questo genere di approccio non è poi tanto diverso da quello seguito dai cultori dei puzzle-game più noti, il che dovrebbe spingerci a trovare il tutto meno strambo di quanto non sembri a primo acchito. Da questo particolare punto di vista il work simulator consisterebbe, in effetti, di una semplice opera di gamification tesa a declinare in ambito ludico azioni mutuate dalla grigia sfera lavorativa.

Anche in questo caso, la spiegazione risulta fondata, ma non tiene probabilmente in giusto conto l’aspetto più controverso della faccenda, vale a dire la crescita di un trend che non sembra conoscere alcuna flessione. A nostro modo di vedere la cosa, è proprio questo il fattore su cui occorrerebbe però concentrarsi, giacché esso sottintende un forte mutamento in atto nella community videoludica. La tradizionale anima sognatrice del gamer starebbe infatti cedendo il passo ad una visione molto più pragmatica dell’intrattenimento al cui utente tipo basti essere proiettato in un contesto dove il lavoro c’è e funziona come dovrebbe per evadere dalla realtà. Quello che non esiteremmo a definire come un oscuro paradosso potrebbe raccontarci molto sulla società contemporanea e su come percepiamo noi stessi in relazionealla precarietà del mondo professionale. Il sospetto è che un numero sempre crescente di individui non riesca a sentirsi parte integrante di alcun processo produttivo e non sia più capace di identificare obiettivi netti verso cui proiettarsi, motivo per cui ci si riduce a sognare il lavoro, senza più ambire a vivere le emozioni iperboliche garantite dai videogame dal taglio più classico. In un contesto virtuale dai contorni essenziali quanto i rispettivi scopi, molti riescono probabilmente a recuperare la perduta certezza di aver pieno controllo sulle proprie attività, finendo col provare al conseguimento di piccoli obiettivi prefissi, la medesima gratificazione che altri sperimentano abbattendo il tipico Boss di fine livello.

Alla luce di questa riflessione, il boom dei Simulatori di Lavoro acquisisce i contorni di un sinistro allarme sociologico facente capo ad una realtà in cui il lavoro è diventato così effimero e infruttuoso che la sua rappresentazione ideale stia diventando rapidamente l’ultimo rifugio in cui ci si possa ancora sentire realizzati.

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