Il futuro della pubblicità In Game e altre (inquietanti) prospettive

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And so it begins” avrà già detto qualcuno, ma l’annuncio dei primi, concreti esempi di pubblicità In Game registrati sia in ambito Free To Play che Mobile, non rappresenta altro che il completamento di un processo di riconversione industriale sorto, a livello ideale, con il lancio delle prime piattaforme streaming e poi entrato in una nuova fase evolutiva col varo del Microsoft Game Pass. Identificata da fior di economisti come l’unica manovra in grado di aggirare l’iceberg verso cui il settore dei videogame contemporaneo sta facendo rotta, l’adozione di un modello di business incentrato sul concetto di gaming liquido, parrebbe aver tuttavia già segnato il passo: conti alla mano, i provider ai vertici del suddetto sistema che, fino a qualche tempo veniva dipinto come la Shangri La dell’ottimizzazione di bilancio, si preparano infatti a registrare conti in perdita per il terzo anno consecutivo. Certificato dal ciclico aumento dei prezzi imposto da Netflix, Prime Video, Disney+ e compagnia danzante, questo trend negativo ha di recente assunto connotati persino più allarmanti, tanto da spingere i brand a individuare nel supporto dei pubblicitari un ultima, disperata risorsa per arginare un’emorragia finanziaria altrimenti inarrestabile. Benché detta manovra abbia violato la clausola più sacra del patto stipulato anni fa coi rispettivi consumatori e alterato per difetto la qualità dei servizi forniti, è assai improbabile ipotizzare eventuali dietrofront: a fiutare l’aria che tira in Borsa e dintorni, verrebbe anzi da scommettere che le ingerenze degli spot si faranno via via più invasive fino a rievocare scenari da TV commerciale anni’80.

Come facile intuire, le criticità che affliggono il contesto cine-televisivo riflettono gli estremi di una crisi di sistema ben più ampia ed è palese che i relativi effetti finiranno per coinvolgere anche e soprattutto i nostri amati videogame. Le ragioni che corroborano questa previsione sono senz’altro molteplici, ma possono essere sintetizzate dal profilo di un prodotto oramai incapace di assicurare un positivo rapporto tra costi e ricavi. Stabilito che, al netto di ipotesi del tutto speculative, nessun produttore vorrà per ora assumersi la responsabilità di introdurre un significativo aumento dei prezzi al dettaglio, l’arrivo degli annunci pubblicitari In Game diviene in tal senso scontato almeno quanto il rischio che il fenomeno assuma toni tanto trasversali quanto invasivi. Dite che stiamo correndo troppo? Magari. A ben vedere sono del resto molti i videogiochi che, in modo più o meno discreto, ma comunque evidente, siano già scesi a patti col demone dell’advertising ed è pacifico che molti altri finiranno senz’altro per salire sul carrozzone. A questo punto, occorre precisare che, quando facciamo riferimento alla presenza di pubblicità in game, non stiamo parlando delle forme di product placement che hanno interessato il genere degli sportivi da più di trent’anni a questa parte, bensì di una forma di promozione molto più aggressiva che, come accade in Rete, potrebbe manifestarsi sotto forma di pop-up ads, banner in sovrimpressione e persino interruzioni di servizio analoghe a quelle che scandiscono la proiezione degli odierni contenuti Youtube.

Sebbene molti continuino a illudersi che il popolo “non permetterà mai che ciò accada“, va precisato che detto scenario sia già in divenire e basterebbe farsi una run su Modern Warfare III, Fortnite ed EA FC 25 per rendersi conto che il giorno in cui la ‘forbidden door‘ verrà aperta sia maledettamente vicino. A chi stesse già pensando a boicottaggi di varia forma e natura, andrebbe invece rammentato che la prerogativa dell’always online sposata dal 90% dei videogiochi che utilizziamo abbia oramai ridotto il nostro margine di protesta a un misero fuoco fatuo. Dando per scontato che, una volta che i fidelity account avranno rimpiazzato le console, l’unico atto sovversivo rimasto sarà quello di appendere il pad al chiodo, chiunque vorrà continuare a giocare dovrà dunque farlo alle condizioni del provider… O costringersi a sborsare un copioso extra in bolletta per tenere a bada lo tsunami fino al successivo rincaro. Ma è davvero a questo che bisognerà ridursi? Possibile che gli sviluppatori e gli utenti di un mercato tanto vasto accettino un compromesso di questa entità senza batter ciglio? Stucchevoli rivendicazioni di integrità a parte, la risposta non può che essere affermativa e questo al netto della rigida politica di restrizioni varata pocanzi da Steam riguardo i prodotti che sposeranno un approccio commerciale troppo aggressivo. Alla lunga, ogni stoica ribellione verrà infatti sedata e non per mano di chissà quale Grande Fratello: quasi certamente, basterà il semplice trascorrere del tempo. Le ingerenze pubblicitarie potranno forse indignare la nostra generazione o scontentare quella immediatamente successiva, ma qualunque utente che entrerà nel giro dei videogame in un futuro prossimo già contaminato da questa piaga, non potrà che trovare la cosa del tutto normale. Come possiamo esserne sicuri, vi chiedete? Perché la Storia ha la cattiva abitudine di ripetersi: giusto una trentina d’anni fa, l’introduzione delle patch veniva del resto accolta come un’eresia ai limiti della truffa dagli utenti della vecchia guardia, salvo poi assumere via via i connotati di una consuetudine che agli occhi dei posteri sarebbe risultata persino benaccetta.

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