Si dice sempre che l’essere umano dia il meglio di sé quando si ritrova con le spalle al muro: al contrario di ogni altra creatura presente sul pianeta, se posto di fronte a problematiche complesse, egli può infatti ricorrere a vantaggi intellettivi unici quali flessibilità cognitiva, pensiero astratto, memoria storica, immaginazione e, soprattutto, creatività. In un’epoca dai connotati tanto enigmatici come questa, le risorse che ci hanno permesso di sopravvivere per secoli a catastrofi naturali, scenari bellici, carestie e crisi finanziarie di entità globale sembrano tuttavia risultare sempre meno efficaci. Gli esempi di questo sinistro downgrade delle nostre capacità adattive fioccano ovunque e accomunano temi di massima rilevanza come la demenziale gestione dei fattori che incidono sui mutamenti climatici a questioni dai contorni più contenuti quali l’incapacità di arginare la grave contrazione economica che sta interessando l’industria dei videogame.
Ben lungi dal voler analizzare i motivi per cui le nazioni industrializzate non riescano a trovare un accordo per la salvaguardia del clima o l’ONU non sia capace di moderare neanche un’assemblea condominiale, noialtri ci concentreremo chiaramente sui guai di ‘casa nostra‘ e lo faremo puntando il dito contro un sistema atrofico i cui vertici continuano a ritenere che sequel, remake e remastered possano ancora costituire uno strumento valido per fronteggiare la peggiore crisi mai registrata nel settore videoludico. Se in virtù di una tradizione pluridecennale potremmo magari chiudere un occhio riguardo la serializzazione dei brand, non è francamente possibile allestire una tesi in grado di giustificare l’abuso di un format basato sul riciclo. Che si tratti di riverniciare recenti successi o sottoporre i classici a procedure di lifting che, proprio come accade in ambito chirurgia estetica, finiscono solo per enfatizzare i segni del tempo trascorso, la miopia di questo piano appare quantomeno evidente. Ancor prima che risultare discutibile sotto il profilo etico, l’adozione di un modello di business così opportunista palesa, difatti, la malsana volontà di assicurare al paziente qualche giorno di vita in più affidandosi a rimedi palliativi, piuttosto che l’intenzione di varare terapie forse più radicali, ma capaci di innescare un processo di risanamento tale da assicurarne la guarigione.
Di fronte a questa considerazione, molti magnati dell’industria ribatterebbero che, in barba alle nostre lamentele il mercato sembri reagire positivamente al trend dell’usato sicuro; tuttavia non occorre certo scrutare in un Palantir per ipotizzare che, prima o poi, anche il pubblico meno esigente si stancherà di pagare cifre tonde per portarsi a casa riedizioni di titoli ancora freschi di scaffale o disturbanti riesumazioni di classici nati, vissuti e morti in un’epoca segnata da limitazioni oggi inconcepibili. Sulla base di quest’assunto, preferiamo dunque provare a dissipare i dubbi di chiunque si chieda in cosa dovrebbero consistere quelle coraggiose manovre di riassetto industriale che occorrerebbe intraprendere. Secondo fior di economisti, il primo passo per riequilibrare l’assetto di un settore che in cui si spenda quasi sistematicamente più di ciò che si guadagni, consiste in una rigorosa spending review. Da non intendersi soltanto come aspra politica di licenziamenti, liquidazioni e brutale ridistribuzione della forza lavoro, detta procedura dovrebbe polarizzarsi innanzitutto sull’ottimizzazione degli investimenti e quindi sulla revisione delle prospettive di vendita. Sarebbe, in tal senso, giunto il momento di abbandonare schemi produttivi che prevedono budget di 300 milioni di dollari per realizzare prodotti come Marvel’s Spider-Man 2 in virtù di approcci più sostenibili così da orientare verso il basso la soglia di demarcazione che separi un flop da una produzione capace di generare profitto. Sebbene i magnati dell’industria appaiano convinti del contrario, il rispetto di quest’elementare principio aritmetico non significa automaticamente produrre titoli di peggior qualità: ai margini del vizioso circolo dei tripla A, c’è del resto una cospicua rappresentanza di videogame che certificano il contrario… Ma allora come mai colossi come EA, Activision e Ubisoft continuano a preferire l’indebitamento all’adozione di misure più virtuose? La risposta è così elementare da risultare infantile: pigrizia. Ma non certo intesa come l’adorabile indolenza di Homer Simpson, bensì come indisponibilità a rimettere in discussione i princìpi di uno status quo ormai consolidato, in cui la creatività è stata rimpiazzata dall’avidità, gli artisti dagli operatori finanziari e le strategie di fidelizzazione con biechi artifizi di marketing. In analogia con le decadenti derive che hanno ridotto in ginocchio industrie un tempo gloriose e azzerato il PIL di intere nazioni, detto processo è stato tanto graduale da evolversi in background. Mentre tutti eravamo presi a contemplare le meraviglie del gaming moderno, la vetta della filiera che muove i fili del Sistema Videoludico è andata così popolandosi di figuri che non hanno mai toccato un pad in vita loro, il cui unico scopo è quello di intercettare ogni eventuale trend in crescita, appropriarsene con predatoria attitudine e abusarne fino a quando il rapporto tra domanda e offerta non penda tragicamente verso quest’ultima.
Alla luce di tutto ciò, è francamente difficile restare ottimisti: in assenza di improbabili inversioni di tendenza, l’industria dei videogame continuerà a bruciare miliardi di dollari, posti di lavoro e concrete opportunità di crescita, cannibalizzando prima i suoi fruitori e quindi sé stessa in una tetra spirale autodistruttiva. Per assurdo, il caotico gioco dei ruoli ha però riposto nelle nostre mani uno dei pochi strumenti ancora in grado di invertire la rotta e cioè il potere di scegliere quali iniziative premiare e quali bocciare. Se amiamo davvero i videogame, abbiamo pertanto il dovere morale di investire i nostri risparmi in titoli che puntino sulle idee e l’inventiva. Viceversa, tra 10 anni staremo probabilmente giocando al remake di Avowed o all’ennesima remastered di The Last of Us.