Blackwood Crossing – Recensione

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Classico ma non troppo

Preparatevi psicologicamente, perché abbiamo una buona e una cattiva notizia. La cattiva è che Blackwood Crossing fa parte di quel sottogenere – quello dei walking simulator – ormai sdoganato da esponenti più o meno apprezzati del calibro di Gone Home, Everybody’s Gone to the Rapture o The Vanishing of Ethan Carter. Proprio per questo motivo, non aspettatevi niente di sorprendentemente diverso dalla media, almeno come concetto generale, e mettetevi l’anima in pace sul fatto che lo scopo generale sia quello di camminare, camminare e ancora camminare, con pochissime eccezioni alla regola.

Gli enigmi sono ridotti all’osso, l’interazione con l’ambiente anche e, bene o male, si è perennemente costretti a proseguire su un unico binario, trasportati dalla mano sempre presente degli sviluppatori che – piuttosto che farci giocare – preferiscono farci vivere un’esperienza sfaccettata ma univoca, quasi fossimo spettatori di un unico, grande film. La buona notizia, però, è che Blackwood Crossing è anche tra i migliori nel suo genere.

Capace di unire sotto un’unica bandiera realtà e surrealismo come quasi nessuno prima d’ora, Blackwood Crossing sembra quasi il parto di una mente malata.

Il titolo si presenta quindi come l’ennesimo esponente di un genere che, a parte rari casi, ha finito per ristagnare in un pantano di idee riciclate e stra-abusate. Eppure, arrivati ai titoli di coda, non abbiamo potuto far altro che applaudire; applaudire di fronte a una delle storie più realistiche e umane che mai ci siano capitate tra le mani, angosciante, struggente e in svariati casi persino intelligente, oltre che visionaria.

Capace di unire sotto un’unica bandiera realtà e surrealismo come quasi nessuno prima d’ora, Blackwood Crossing sembra quasi il parto di una mente malata, un lungo incubo che reitera perennemente le stesse situazioni e che, in molti casi, risulta persino quasi indecifrabile.

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