
La nostra recensione di Ghost of Yotei, seguito spirituale, a opera di Sucker Punch, di quel Ghost of Tsushima che nel 2020 venne molto apprezzato dalla critica ma soprattutto dal pubblico.
Ghost of Yotei arriva sul mercato in un periodo molto diverso da quello del suo predecessore Ghost of Tsushima. Certo, indubbiamente anche essersi lasciati alle spalle Covid e lockdown vari rappresenta un significativo cambiamento nelle nostre vite, ma in questo caso specifico ci stiamo riferendo al momento vissuto dai team interni di Sony. Ghost of Tsushima arrivò infatti a chiudere una generazione (nonostante poi ci siano stati diversi titoli cross-gen successivi come God of War Ragnarok, Horizon Forbidden West o Gran Turismo 7) di livello straordinario, con The Last of Us Part II, uscito un paio di mesi prima, come suo picco assoluto.
Ghost of Yotei invece sbarcherà sulle nostre PlayStation 5 il prossimo 2 ottobre 2025, nel pieno di una generazione in cui Sony, pur rimanendo leader indiscussa del suo settore ed economicamente in piena salute, sta offrendo obiettivamente molto meno a noi videogiocatori, tra team spariti dai radar, progetti cancellati (principalmente game as a service) e altri in ritardo o in grossissima difficoltà (vedasi Marathon).
L’ultimo lavoro di Sucker Punch dunque ha un peso specifico rilevante nell’annata della grande S, e al tempo stesso è chiamato a un salto di qualità rispetto al suo predecessore, che era indubbiamente un buon gioco (una discreta fetta di pubblico lo ha amato moltissimo) ma con più di un limite sotto diversi punti di vista, come analizzato nella nostra recensione di allora (che trovate QUI). Missione riuscita? Scopriamolo insieme.

L’ambientazione di Ghost of Yotei
Ghost of Yotei non abbandona ovviamente il setting giapponese, ma le sue vicende si svolgono nei primissimi anni del 1600, circa tre secoli dopo quelle dello Spettro Jin Sakai, nella regione settentrionale di Ezo, oggi conosciuta come Hokkaido e sovrastata appunto dal vulcano Yotei.
La nostra protagonista è Atsu, una mercenaria abilissima con la katana e con un passato tragico alle spalle. La sua famiglia è infatti stata sterminata dal malvagio Lord Saito, un ex samurai, e dai suoi cinque indegni compari: la Kitsune, maestro dell’inganno e dei veleni; l’Oni, fiero e autoritario generale; la Serpe, che avremo modo di affrontare nel prologo e tutorial del gioco; e i due i figli di Saito: il Drago e il Ragno, dai caratteri e dal carisma estremamente diversi ma entrambi ugualmente detestabili.
Una storia di vendetta dunque, che ci vedrà dare la caccia ai Sei di Yotei con tanto di lista di nomi alla Kill Bill scritti su una fascia legata in vita e da bagnare via via col sangue della vittima. Mano a mano che ci faremo strada tra i territori nemici conosceremo nuovi alleati, che ci aiuteranno nella nostra missione e ci insegneranno a utilizzare nuove armi, e rafforzeremo allo stesso tempo la nostra fama di Onryo (spirito vendicativo del folklore nipponico), nonché la taglia sulla nostra testa e il numero di ronin che proveranno a incassarla.

Ghost of Yotei: Trama e regia
Pure in questo caso, come per Ghost of Tsushima, ci troviamo di fronte a una trama molto classica, tipica da film di genere e di vendetta, che però riesce ad accompagnare la progressione del gioco in maniera sufficientemente soddisfacente. Ci sono un paio di colpi di scena ben riusciti, ma anche una fase centrale, fortunatamente non lunga, che sa un po’ di riempitivo. Per fortuna poi la parte finale rialza notevolmente l’interesse e giunge a una buona conclusione.
Niente però fa onestamente gridare al miracolo sotto il punto di vista della narrazione: né la caratterizzazione dei personaggi, comunque accettabilmente tratteggiati, né tantomeno i dialoghi o il messaggio di fondo. Siamo davanti infatti alla solita, pur giustissima, stigmatizzazione e dichiarazione di inutilità del concetto di vendetta, che come arcinoto non ci ridarà mai quello che ci è stato tolto ma anzi ci renderà solo più vuoti se continueremo a perseguirla. Tematica che è già stata trattata migliaia di volte e molto meglio, anche rimanendo in casa Sony, e la messa in scena del tutto non riesce a elevare il risultato.

Anche la regia durante le cutscene o le scene narrative in game infatti non fa passi da giganti, e rimane un po’ statica. Ma non statica alla Yasujiro Ozu, con dei tempi e una composizione dell’inquadratura rigorosa e perfetta, semplicemente statica, sotto tono, poco ispirata. Duole ripetersi ma pure stavolta la direzione, tranne in pochi casi, fatica a trasmettere la giusta epicità durante le scene d’azione e di battaglia scriptate, al contrario invece molto spettacolari e coreografiche durante il gameplay di combattimento all’arma bianca; e quasi mai riesce a rendere tangibile il dramma delle scene tragiche o di addio.
Sotto il punto di vista registico e narrativo Sucker Punch non ha storicamente mai brillato e Ghost of Yotei non ha fatto reali salti in avanti. Ci accontentiamo dunque di un risultato, come detto, sufficientemente gradevole da accompagnare il gioco, ma non vi aspettate nessun miracolo.
Solo un aspetto relativo alla narrazione, ma anche squisitamente tecnico, è migliorato in maniera esponenziale: la qualità del motion capture facciale e di conseguenza la recitazione digitale. I volti dei personaggi, almeno durante le cutscene o nei primi piani alla Sergio Leone (purtroppo sempre identici) prima dei duelli, sono infatti straordinari, con una resa dei movimenti dei muscoli del viso, degli occhi e un’espressività che può quasi competere con Naughty Dog o Kojima Productions, cioè il top del settore in questo aspetto tecnico.

L’estetica: ancora una volta il punto di forza
Il punto di forza di Ghost of Tsushima, lo sappiamo, era un’estetica favolosa. Ghost of Yotei non è di certo da meno, con la solita estrema cura per vestiario e armature d’epoca, architettura di villaggi, templi o pagode. Ma anche per i suoi paesaggi, i suoi boschi, le scogliere, i campi di fiori (bellissimo come in alcuni punti, principalmente arene, ci siano distese di foglie che si muovono singolarmente al nostro passaggio) e tanti piccoli angoli nascosti di pura bellezza.
Non è da meno ma, tecnicamente parlando, non è nemmeno un enorme salto in avanti. Premettendo che la recensione è relativa solo alla versione PS5 standard (per informazioni sulla resa su PS5 Pro vi rimandiamo a futuri contenuti a opera di Roberto Buffa), Ghost of Yotei non lascia mai senza fiato. È bello da vedere sì, ma non mozzafiato. Si percepisce nettamente (pure per altri aspetti non legati alla grafica e che vedremo più avanti) che il budget è molto simile a quello del suo predecessore, come da recente dichiarazione del team, e considerato che nel frattempo sono anche passati cinque anni da Tsushima appare chiaro come questa scelta di sostenibilità abbia escluso la possibilità di trovarsi di fronte a un benchmark grafico generazionale.
Ovviamente più si scende a compromessi con la fluidità e migliore è il risultato visivo, su PS5 standard sono presenti infatti le tipiche tre modalità: Qualità (massimo dettaglio ma lock a 30fps), Ray Tracing (illuminazione migliorata e obiettivo 30fps) e Prestazioni (60fps). La differenza in termini di definizione dei dettagli e di illuminazione è ben tangibile, ma visto il tipo di gioco, e dato che comunque sia il colpo d’occhio rimane bello in tutte e tre le modalità, vi consigliamo di giocare in Prestazioni, come quasi sempre a dire il vero. La maggiore fluidità e la migliore risposta ai comandi può davvero fare la differenza in combattimento, specialmente alle difficoltà più alte (con picchi anche un po’ eccessivi durante i boss), dove si muore molto velocemente nel caso si incassino dei colpi.

A completare le opzioni visive della produzione torna la modalità Kurosawa, cioè un filtro in bianco e nero e con una grana artificiale sull’immagine, come a ricreare l’effetto delle pellicole degli anni ’50 o ’60 del Maestro. In aggiunta, come novità, avremo anche la modalità Miike (Audition, Visitor Q, Ichi the Killer, 13 Assassins e letteralmente centinaia di altri film), che aumenta esponenzialmente gli effetti di sangue & m̵e̵r̵d̵Fango per un effetto pulp, molto pulp, pure troppo (citazione non per tutti).
Presente pure un terzo “filtro”, chiamato Watanabe (Cowboy Bebop, Samurai Champloo), che invece aggiunge un accompagnamento musicale lo-fi alternativo ma onestamente un po’ fuori luogo. Le ottime musiche del gioco, dallo stile più moderno rispetto a Ghost of Tsushima (dopotutto sono ambientati in epoche diverse), fanno già il loro lavoro di atmosfera senza bisogno di aggiungere loro niente.
Per finire torna ovviamente un eccelso photomode, tra i migliori mai realizzati, che permette di scattare non solo le classiche foto ma anche delle “foto in movimento”, con elementi attivi come il vento, la pioggia, musica, petali nell’aria o effetti particellari.

Ghost of Yotei: un gameplay rifinito ma in continuità
Lato gameplay, Ghost of Yotei non rivoluziona quanto di buono fatto dal suo predecessore, ma anzi ne riprende ogni elemento per poi andare a migliorarlo in maniera a dire il vero non così eccessiva.
Il combat system rimane basato sulla concatenazione di attacchi rapidi o potenti, con qualche possibilità di combo in più rispetto al passato, pur non diventando mai eccessivamente complesso. Le varie pose che potevamo adottare con Jin sono state qui sostituite da armi aggiuntive. Oltre alla katana singola potremo infatti fare affidamento su uno stile di combattimento con due katana, sulla odachi (una spada di enormi dimensioni, lenta ma devastante), sullo Yari (una sorta di lancia) e sul kusarigama (una particolare combinazione di falcetto e palla d’acciaio legate insieme da una catena, molto spettacolare).
Di fatto però non cambia il modo in cui il gioco ci spinge a utilizzarle: proprio come le pose di Jin infatti ogni arma è particolarmente efficace contro un tipo di arma avversaria, in una sorta di sasso-carta-forbice. Il kusarigama per esempio è specializzato nella rottura degli scudi, la odachi è fatta per spezzare la guardia dei nemici più grossi, lo yari funziona bene contro chi impugna due katana e viceversa, mentre la katana singola dà il meglio quando usata contro un’altra katana singola. Come in Tsushima non c’è nessun particolare svantaggio nel difendersi con l’arma sbagliata, ma è tutto nel nostro interesse utilizzare quella giusta in fase offensiva per ottimizzare i tempi e quindi minimizzare i rischi, dato che basta davvero poco per finire circondati.
Difensivamente parlando tornano anche gli attacchi che è possibile deflettere per contrattaccare all’istante, segnalati da una luce blu, e quelli che è possibile solo schivare, segnalati invece in rosso (pure in questo caso si può contrattaccare se si schiva col tempismo perfetto). Si aggiungono alla lista gli attacchi in giallo, che ci possono disarmare costringendoci a cambiare arma o a correre in giro per recuperare quella caduta. Per evitarlo dovremo essere noi a colpire per primi con un attacco caricato, facendo così perdere l’arma proprio al nostro avversario. Arma che poi potremo raccogliere e lanciare contro il suo ex possessore o altri malcapitati.

I gadget a disposizione di Atsu si concentrano più sull’offesa che sullo stealth rispetto a quelli di Jin, e comprendono i classici kunai, bombe accecanti o incendiarie, archi (a lunga o a corta distanza) con frecce velenose, infuocate, esplosive, disarmanti (una new entry). Ma anche bombe fumogene e, soprattutto, pistole e fucili, a testimoniare il passaggio del tempo e l’avvento delle prime armi da fuoco, pur rudimentali. La pistola è usata principalmente come strumento per interrompere gli attacchi più pericolosi, mentre il fucile è una letale arma a distanza pure contro i nemici più corazzati, ma soffre molto nella velocità di fuoco e di ricarica.
La varietà e l’efficacia di tutti questi gadget è più che soddisfacente, anche se più che in passato rischiano di trasformarsi nel principale strumento di offesa nelle fasi finali di gioco, quando le risorse per creare munizioni e pallottole negli accampamenti abbondano. Personalmente però non è stato il nostro caso, perché dopotutto il combattimento all’arma bianca e il sentirsi dei samurai/ronin è uno dei motivi principali per cui si sceglie di giocare a Ghost of Yotei/Tsushima, ed è anche divertente e tecnico a sufficienza, quindi perché smettere di farlo?
Per chiudere l’argomento combat system segnaliamo che è stata aggiunta tramite menu delle opzioni la possibilità di fare lock-on su un bersaglio, ma sinceramente non abbiamo mai sentito il bisogno di utilizzarla perché Atsu capisce perfettamente chi colpire in base ai nostri input anche nelle situazioni più affollate.

Passando invece alla gestione dell’open world e delle missioni, uno dei punti più deboli di Ghost of Tsushima, sono stai fatti anche qui timidi passi in avanti, ma nulla di eccezionale.
Pure stavolta il mondo di gioco è sì bello da vedere ma estremamente statico e vuoto. Potremmo riciclare quasi in toto le parole spese nel 2020: non c’è alcuna interazione davvero significativa con l’ambiente e gli npc, né alcun sistema interno che ne regoli le routine, di fatto inesistenti. Paradossalmente l’attività venatoria in cerca di risorse è ancora più limitata, dato che gli animali cacciabili scendono a uno, gli orsi. Di contro però ci sono in giro per Ezo moltissimi branchi o stormi di animali e uccelli erranti, che indubbiamente fanno molta scena, ma coi quali non è possibile fare nulla.
Il ciclo giorno notte, così come il clima, non ha alcuna reale conseguenza né sul mondo né sugli eventi casuali che potremo incrociare in giro per la mappa. Eventi che, fortunatamente, sono un po’ più vari rispetto al predecessore, ma niente che non si esaurisca dopo poche ore di gioco. Incontrare ronde dell’esercito di Saito porterà inevitabilmente a uno scontro, mentre gli npc potrebbero segnalarci luoghi di interesse nei paraggi, o chiederci di aiutarli in piccole side quest con denaro o amuleti come ricompensa. A meno che non ci tradiscano di punto in bianco.
Vogliamo però fare una piccola precisazione alla nostra critica sul mondo di gioco: ambientare un videogioco in un open world di stampo così vetusto non è necessariamente un difetto invalidante, dopotutto non tutti i titoli hanno bisogno dell’interazione di Zelda Breath of the Wild per raggiungere il loro scopo, anzi, ma di certo non possiamo nemmeno dirci impressionati ecco.

L’esplorazione è legata anche stavolta al vento guida, appunto un vento richiamabile sfiorando il touchpad e che spira in direzione del nostro obiettivo o del punto della mappa che decidiamo di indicare. L’idea dopotutto era una buonissima alternativa visiva ai classici gps e non poteva che venire confermata.
Una lieta novità è la libertà con cui si può decidere di esplorare Ezo e affrontare le sue missioni, pure quelle primarie. Non saremo infatti costretti a seguire, quantomeno nella fase iniziale, una serie di main quest lineari, ma potremo scegliere noi quale dei Sei di Yotei cercare per primo (secondo a essere precisi, dato che la Serpe come già accennato sarà protagonista del prologo), favorendo una narrativa emergente legata ai possibili diversi “percorsi”.
Oltre al vento tornano anche le volpi e gli uccelli, che una volta avvicinati ci guideranno verso punti di interesse come le sorgenti termali, con cui incrementare i punti vita, o appunto le tane delle volpi, dove otterremo diversi amuleti da indossare, ognuno con varie abilità. A questi si aggiungono i lupi, che ci chiederanno di aiutare a liberare i propri simili in cambio di progressi nel loro specifico ramo di abilità.
Durante le sue avventure infatti Atsu stringerà un rapporto di amicizia, anzi di rispetto reciproco, con una lupa che potrebbe decidere autonomamente di aiutarci in combattimento. Rinforzando questo legame potremo rendere le sue apparizioni sempre più frequenti, fino a farla diventare una presenza costante e richiamabile a piacimento suonando la sua canzone con lo shamisen (una sorta di chitarra) ereditato da nostra madre. Questa aggiunta l’abbiamo gradita non solo perché molto utile (la lupa può partecipare ai duelli e alle uccisioni stealth raddoppiandone di fatto l’efficacia, o salvarci attaccando il nemico quando siamo già a terra morenti) ma anche perché dà vita ad alcuni dei dialoghi che più ci sono rimasti impressi.

Parlando di progressione del personaggio Sucker Punch ha abbandonato, per logiche ragioni narrative, il dualismo eroe/cattivo che ha caratterizzato la sua produzione per tutto il periodo dal primo Infamous a, parzialmente, Ghost of Tsushima, ma dobbiamo dire che visto il modo superficiale con cui ha sempre trattato la questione non è una mancanza così grave, anzi.
Atsu può migliorare le sue abilità spendendo punti che si ottengono inchinandosi agli altari sparsi in giro per tutta Ezo, ricevendo in cambio nuovi attacchi con le varie armi da mischia o a distanza, o miglioramenti vari alla forma dell’Onryo (una sorta di berserk che terrorizza i nemici) o alla percezione del movimento nemico, alla The Last of Us. La varietà delle build, pur non incredibile, è migliorata rispetto al predecessore. Non tanto grazie alle decine di fasce, maschere, copricapi o skin per le armi, che rimangono squisitamente estetiche, ma per una più variegata combinazione di amuleti indossabili, che oltre a darci perk unici possono anche cambiare sensibilmente l’effetto dei nostri gadget (per esempio rendendo velenosi i fumogeni).
Come abbiamo accennato il combattimento è più stratificato rispetto a Ghost of Tsushima, con maggiori combinazioni di colpi o attacchi speciali, mentre lo stealth non ha purtroppo nulla di nuovo o di migliore da dire (anzi ha qualche gadget relativo in meno). Come spesso accade è parecchio all’acqua di rose, con una reattività, una percezione e una IA dei nemici molto basse.
Migliorato ma solo sensibilmente pure il mission design: Le primarie fanno quello che devono, ma le secondarie continuano a risultare troppo semplicistiche e con pochi sbocchi, specialmente se consideriamo come siano passati ormai ben dieci anni dalla lezione di The Witcher III e tre anni da Horizon Forbidden West e God of War Ragnarok, i due esempi migliori in casa Sony per quanto riguarda la cura delle side quest.

Ghost of Yotei: Durata e features legate ai dispositivi Sony
Qualche piccola nota di comune interesse prima di giungere alle conclusioni: abbiamo terminato la storia e praticamente platinato il gioco (mancano solo un paio di maledetti collezionabili non tracciabili) in circa 80 ore, portando avanti sia l’esplorazione di Ezo che la main quest di pari passo. Difficile dunque quantificare con precisione la durata della singola campagna (azzardiamo una quarantina di ore circa), ma in ogni caso è più che adeguata a quello che ha da raccontare, tranne per una piccola flessione verso la metà, come accennato sopra.
Molto soddisfacente sia l’utilizzo del Dual Sense, che restituisce la sensazione dei colpi o la tensione delle corde degli archi in modo davvero validissimo, sia la qualità e la spazialità dell’audio, testato utilizzando le cuffie Pulse 3D ufficiali di Sony. Un lavoro impeccabile sotto questo punto di vista.
Presenti sia la localizzazione che il doppiaggio in italiano, coma da tradizione per le esclusive Sony.

Ghost of Yotei: Il nostro giudizio finale
Tirando le somme, Ghost of Yotei è sicuramente un buon gioco, ma la risposta alla domanda che ci siamo posti nel titolo della recensione e nei primi paragrafi è purtroppo negativa: no, non è il salto di qualità che ci auguravamo da Sucker Punch e, pur sensibilmente migliorato rispetto a Ghost of Tsushima, il valore generale si attesta su un livello paragonabile a quello del suo predecessore nel 2020, con l’aggravante però di cinque anni di distanza.
Pure stavolta ci troviamo di fronte a un gioco con una grande qualità estetica e un combat system molto piacevole, ma anche con evidenti limiti in più di un aspetto importante della produzione. La trama è godibile, ma davvero banale nel messaggio e priva di grandi guizzi, mentre la messa in scena solo accettabile, nonostante il netto miglioramento della recitazione digitale.
La libertà con cui si può affrontare le missioni della storia principale è una novità molto interessante, ma le missioni stesse non brillano particolarmente per narrazione o spettacolarità, specialmente se parliamo delle secondarie, ancora legate a un modo di fare contenuto accessorio in un open world (o open map) che non ha imparato da CD Projekt Red quanto i cugini di Guerrilla o Santa Monica coi loro ultimi titoli. Lo stesso dicasi per il mondo di gioco stesso, nel quale è impossibile immergersi o viverlo a mo’ di “Samurai Simulator” a causa della sua staticità e mancanza di interazioni significative. Lo stealth poi continua ad avere le stesse problematiche, legate principalmente all’intelligenza artificiale.
Il budget non basso ma comunque non aumentato rispetto a Ghost of Tsushima si fa sentire anche per l’assenza di rifinitura in piccoli dettagli di gameplay magari non fondamentali, ma comunque spiacevoli da vedere trascurati, come per esempio la mancanza di una qualsiasi opzione quando ci si trova a condividere una scala a pioli con un nemico (dando vita a una fase di stallo comica), o una terribile “scivolata infinita” dell’animazione di salto quando ci si trova a cadere o atterrare in punti non previsti.
Esattamente come al suo predecessore insomma, a Ghost of Yotei manca più di qualcosa per raggiungere l’eccellenza, un più di qualcosa che quella parte di pubblico che l’ha molto amato però pare avere (in)volontariamente ignorato e che probabilmente perdonerà anche stavolta, ma che noi non possiamo che sottolineare nuovamente.
Ma come cinque anni fa, e il voto finale positivo lo dimostra, Ghost of Yotei non è bocciato e nemmeno rimandato, è promosso. È un buon gioco, con punti di forza e punti di debolezza come li hanno tutti i buoni giochi, e per quanto non raggiunga le vette di altre esclusive Sony ha eccome il suo perché all’interno del mercato odierno. Chi ha apprezzato il primo non potrà che amarlo, così come i cultori dell’ambientazione nipponica o i fan duri e crudi dell’open world di stampo classico. Da parte nostra però avremmo voluto vedere di più, è innegabile.


















