
Negli ultimi cinquant’anni l’industria dei videogame è passata dall’essere una piccola diramazione dell’informatica a uno dei principali propulsori della sfera economica legata al mondo dell’intrattenimento. Sbalorditivo anche e soprattutto per la rapidità con cui è stato conseguito, questo risultato è il frutto di un processo di crescita costante che ha implicato l’obbligo di adattarsi in fretta ad ogni cambiamento imposto dall’espansione del mercato. Quello che non esiteremmo a definire come una vera e propria forma di maturazione ha interessato ogni singola figura professionale coinvolta nel settore: imprenditori, programmatori, ingegneri elettronici, grafici, musicisti, ingegneri del suono, soggettisti, sceneggiatori e public relator si sono ritrovati, in tal senso, a riformare i propri schemi professionali e le rispettive abitudini di continuo, pur di assecondare gli standard imposti dall’evoluzione del medium. Il cambiamento di attitudine è stato così totalizzate che, oggi come oggi, faremmo una fatica pazzesca a credere che pionieri come Nolan Bushnell, Ralph Baer e David Crane facessero lo stesso lavoro di Sam Hauser, Hideo Kojima e Markus Persson. In questo universo in espansione costante solo un elemento è tuttavia rimasto uguale a sé stesso e cioè i videogiocatori.
Prima che a qualcuno salti in mente di gonfiare il petto e rivendicare con orgoglio la purezza mai perduta, è opportuno chiarire subito che non si tratti affatto di una buona notizia. A dirla proprio tutta, ci sarebbe addirittura da imbarazzarsi, giacché la nostra impermeabilità ai cambiamenti rappresenta l’ultimo ostacolo che impedisca al medium di ottenere la legittimazione culturale che si è guadagnato sul campo. Confusi? Arrabbiati? Non dovreste, perché in fondo al cuore conosciamo tutti fin troppo bene le magagne della community di cui facciamo parte. In barba a tutte le straordinarie conquiste maturate dal settore in appena mezzo secolo di storia, troppi di noi continuano infatti a vivere il medium come facevano Nintendari e SEGAioli a fine anni ’80: una declinazione elettronica del campanilismo da stadio più provinciale, in cui il concetto di “noi” esiste solo se contrapposto a un “voi”. Ottenebrati dal miope desiderio di prevalere su uno stuolo di nemici immaginari, ragazzini di prima, seconda e terza età seguitano ancora a concepire il settore come area di scontro: vomitano veleno sugli sviluppatori sgraditi al proprio allineamento, scherniscono chiunque non approvi i rispettivi gusti, auspicano il fallimento di intere aziende, gioiscono quando ciò accade e, sempre più spesso, si riducono a boicottare fior di progetti a suon di review bombing. Mentre il videogioco annichilisce Cinema e TV elevandosi spesso e volentieri ad opera d’arte, il suo pubblico si perde così il clou dello spettacolo, preferendo prender parte ad una guerra che nessuno gli ha mai chiesto di combattere. Persino i vertici delle corporazioni più odiate del circondario riconoscono del resto che, nel suo insieme, il movimento videoludico rimanga più importante di qualunque rivalità. Nella bagarre del fanboysmo fine a sé stesso non c’è tuttavia alcuno spazio per obiettività, raziocinio e comunione d’intenti… Nemmeno quando la folkloristica narrazione della Console War è oramai passata agli archivi. Piuttosto che seppellire le asce di guerra e abbandonare una volta per tutte l’infantile approccio con cui ci si relaziona al prodotto, seguitiamo difatti individuare altri pretesti per cui batterci e nuovi modi per certificare che, sotto sotto, non ci meritiamo il privilegio di essere custodi e padroni di questo medium. I videogame hanno smesso di essere giochini elettronici da un pezzo e meriterebbero senz’altro una platea più coscienziosa e consapevole del miracolo che essi rappresentano.
Per quanto possa essere tardi per recuperare i giorni persi a bisticciare come iene, non è però troppotardi per emanciparsi: a patto di volerlo davvero, possiamo ancora provare ad essere meglio di così. Tutto sta nel riconoscere che è giunto il tempo di cambiare, di evolvere e scegliere di vivere la nostra passione assieme, piuttosto che ucciderla divisi come eserciti al fronte.
















tunon hai capito che io mondo del videogame esiste solo grazie alla console war dai tempi di Atari intellivision
Purtroppo, leggendo non si capisce il tono del tuo commento: se si tratta di un’iperbole amara messa lì con una punta di sarcasmo, ci posso anche stare. Se invece dici sul serio, non potrei essere meno d’accordo, anche perché non puoi ridurre l’evoluzione di un intero movimento culturale alle beghe dei fanboy, né sostenere che il fenomeno non abbia subito mutazioni rilevanti di decade in decade. Sia come sia, se fosse come dici tu allora abbiamo una notizia: il mondo dei videogame è già finito da un po’ e non ce ne siamo accorti, perché la Console War intesa come la si intendeva negli anni ’80 non esiste più da anni. Dalle ceneri della generazione di sistemi contemporanei, con la caduta delle esclusive e la prospettiva di un futuro molto prossimo che punta al gaming senza hardwre dedicato, ogni residua ragion d’essere del “conflitto” svanirà poi del tutto. P.S. La Console War tra Atari 2600, Intellivision e ColecoVision è peraltro frutto di una narrazione romantica della storia: numeri alla mano, Atari aveva infatti annichilito ogni concorrenza senza nemmeno rendersi del tutto conto che ve ne fosse.