Daylight – la recensione

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Spaventare un videogiocatore non è poi così difficile, concentrato com’è a giocare, basta che spunti all’improvviso un qualunque tipo di abominio sullo schermo per farlo letteralmente saltare sulla sedia. Tuttavia, come insegna il cinema, l’efficacia di questo stratagemma è tanto comprovata quanto facile a consumarsi: i film che abusano di questa tattica sono considerati solitamente scadenti, soprattutto se non supportati da una sceneggiatura e un’atmosfera in grado di inquietare realmente. Ma nei videogiochi come funziona? Daylight ci mette di fronte a questo interrogativo, collocandosi nel recente e fortunato filone dei giochi horror in prima persona, a cui appartengono esponenti quali Outlast, Amnesia o Slender: The Arrival.
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Il gameplay è poverissimo: vi ritroverete spesso a vagare alla ricerca delle reliquie e dopo neanche troppo tempo le ambientazioni vi verranno a noia

Come nei giochi appena citati, il punto di forza di queste esperienze è che sono vissute interamente dagli occhi del protagonista, e instillano il terrore facendo uso dell’ambientazione stessa. Le vicende di Daylight si svolgono all’interno di un manicomio, dove verrete calati direttamente senza alcun indizio sull’antefatto. Starà al giocatore ricostruire quello che è successo, raccogliendo oggetti e frammenti sparsi per i livelli; per certi versi, il gioco ricorda una versione orrorifica dei classici dungeon crawler, come Furai no Shiren, per intenderci. La mappa di gioco, infatti, è generata casualmente, così come le terrificanti apparizioni che la popolano. Armati solo di uno smartphone, dovrete usarlo sia per farvi luce che per navigare la mappa.
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il momento del cane zombi che salta dalla finestra nel primo Resident Evil rimane il frutto di un design superiore a tutto quello che vedrete in Daylight.

La prosecuzione è ancorata alla raccolta di sei oggetti, le cosiddette “reliquie”, che una volta collezionate, vi permetteranno di sbloccare il sigillo e passare all’area successiva, dove ripetere la sequenza. Il gioco mira quindi a tenervi concentrati su un obiettivo, la raccolta degli oggetti, appunto, in modo da rendervi particolarmente vulnerabili agli spaventi improvvisi. E c’è da dire che in questo scopo riesce anche più che egregiamente: il gioco sembra quasi essere stato creato appositamente per i video gameplay, e già immaginiamo che sarà pieno di persone su YouTube che filmeranno le loro reazioni più improbabili.

Il gioco si salva in corner proponendo la compatibilità con il visore per la realtà virtuale creato da Palmer Luckey.

La prospettiva che gli spaventi siano generati casualmente contribuisce ad aumentare il fattore tensione, impedendovi di sapere quando si manifesterà la prossima apparizione malevola. Il compito di spaventarvi sarà affidato a una sorta di ombra, il cui funzionamento ricorda per certi versi la dinamica di Slender. Si tratta di una donna fantasma che può materializzarsi all’istante nell’ambientazione, e naturalmente non perderà occasione di comparirvi alle spalle o di aspettarvi diabolicamente dietro un angolo. Questo mostro urlerà con tutta la sua forza, facendovi gelare il sangue nelle vene ogni volta che farà la sua comparsa. In questi momenti, il gioco svolge in maniera eccellente il suo compito di spaventarvi.
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Il problema è che tutto il suo equilibrio è costruito intorno a questa meccanica, con pochissima attenzione per quanto riguarda il resto. Il gameplay, in altre parole, è poverissimo: vi ritroverete spesso a vagare alla ricerca delle reliquie e dopo neanche troppo tempo le ambientazioni vi verranno a noia, dal momento che tendono a riciclare gli asset e a sembrare tutte uguali. Tutto questo non è neanche supportato da una linea narrativa degna di nota, dato che tutti i cliché più abusati del genere horror sono stati buttati in un unico calderone.

Il gioco sembra quasi essere stato creato appositamente per i video gameplay, e già immaginiamo che sarà pieno di persone su YouTube che filmeranno le loro reazioni più improbabili.

E il risultato è così banale da sconfinare nel parodistico. Alla lunga, quando il fantasma vi si ripresenterà di fronte per l’ennesima volta, ogni meccanismo orrorifico comincerà a sembrare una stanca ripetizione. Le stanze propongono una serie di situazioni standard, come una porta che si chiude da sola o una sedia che si muove senza nessuno nei paraggi. Il problema è la frequenza molto alta con cui si ripetono, la quale fa sì che molto in fretta sviluppiate un’abitudine e, di conseguenza, diventiate immuni a questi spaventi.
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La casualità della disposizione si rivela, quindi, un’arma a doppio taglio: si sente molto la mancanza di una regia dietro ai vari artifizi orrorifici e, come il primo Alien insegna, la paura viene costruita per sottrazione, non certo per addizione. Daylight, al contrario, esagera nel proporre momenti spaventosi e tutto il walkthrough, nonostante sia decisamente breve, appare quindi molto diluito. Sarebbe stata molto più d’impatto una “dark ride” più concisa, magari, ma più incisiva nel costruire attimi di puro terrore… insomma, il momento del cane zombi che salta dalla finestra nel primo Resident Evil rimane il frutto di un design superiore a tutto quello che vedrete in Daylight.
C’è un fattore da tenere in considerazione, a questo punto. E parliamo di Oculus Rift. Il gioco si salva infatti in corner proponendo la compatibilità con il visore per la realtà virtuale creato da Palmer Luckey, le considerazioni sul gioco cambiano se fruito usando o meno il dispositivo. Daylight con il Rift diventa infatti un’esperienza intensa e claustrofobica, che condurrà a momenti davvero da gelare il sangue nelle vene.
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Tuttavia, anche in questo caso occorre riconoscere che ci sono giochi decisamente meglio realizzati che possono essere resi compatibili con il visore, tra cui il già citato Amnesia. Spaventare, lo dicevamo nell’incipit, non è difficile. La vera sfida è creare un’impalcatura di gameplay in grado di sostenere l’orrore e iniettarlo nel giocatore, anche sulla lunga distanza. Daylight si limita a essere, sostanzialmente, uno screamer: quei video-scherzi da “salto sulla sedia” che andavano di moda anni fa su Internet. Per spaventarci, ma per davvero, temiamo che ci voglia ben altro.