Comprassero davvero il favore delle mie recensioni ogni volta che mi è stato accusato, oggi non mi spaccherei la schiena in fabbrica otto ore al giorno. Resterei qui, comodamente seduto davanti al monitor a parlare di giocattolini e fingendo di capirne qualcosa, vivendo di quello che agli occhi di molti è il lavoro più bello e allo stesso tempo più corrotto al mondo. Non so se sono più stupide le accuse basate sul nulla o le beffe alle menti semplici che davvero credono il mondo funzioni in maniera così lineare. Fosse così semplice, sveleremmo ogni sotterfugio ancor prima che possa nascere. Il problema dell’editoria videoludica, o più precisamente di quello che è successo con le prima recensioni di Dragon Age: The Veilguard, è da ricercare in posti più oscuri di quel banco che nasconde le leggendarie, fantomatiche mazzette.
Dragon Age: The Veilguard, una recensione difficile
Questa è forse la recensione più difficile della mia carriera, e non tanto perché non so cosa dire su Dragon Age: The Veilguard; al contrario, le mie idee sono chiare, numerose e nate da numerosi confronti. In primis, ci tengo a precisare di aver giocato ogni Dragon Age ma di non esserne un fan cieco, e di essermi approcciato al progetto senza aver simpatizzato con alcuna fazione o essermi fatto influenzare dalle tristi discussioni che hanno preceduto la sua uscita.
Parlarne non è difficile, dicevo. Difficile è farsi ascoltare. Nell’ultima settimana, ho provato a dire segretamente la mia su qualche forum, sullo stesso gruppo Facebook di GameTime, anche già solo per studiare l’evoluzione del curioso fenomeno sociale che rispondeva agli hashtag ‘#Bye-ware‘ e ‘#non buy-nary‘, e il risultato è sempre stato lo stesso: odio o (in minor parte) amore ciechi, ‘ahah react‘ quando facevo notare di aver trovato almeno un barlume di qualità, seppur minimo, persino nel più secondario degli aspetti.
Spesso si legge: “The Veilguard è brutto da capo a piedi, da quel che ho capito, e senza possibilità di redenzione“. O con loro, o contro di loro, ed è così che il pubblico ha deciso. E quando il pubblico ha deciso non è mai l’inizio di un qualcosa, ma già la fine. La fine, o la morte in questo caso, di quel concetto che tanto diciamo di ricercare ma che per primo scacciamo quando ci bussa alla porta. Il dialogo.
Mi ha ricordato molto da vicino ciò che successe con The Last of Us: Parte 2. Vere o false che fossero le accuse, politiche e idee dietro al gioco finirono sulla rete prima del tempo – alcune anche furbamente decontestualizzate – e la rabbia iniziò a diffondersi a macchia d’olio partendo dall’aspetto che aveva colpito per primo l’occhio delle menti più ‘semplici‘ e, in seguito, finendo anche su ciò che era completamente scollegato. In questa istanza, non ha nemmeno aiutato il ‘caso recensioni‘, con il publisher che ha tarpato la bocca a molte realtà facendo credere a tutti ci fosse persino qualcosa di losco dietro.
Mi dispiace deludere le fantasie dei complottisti ma, in vent’anni che bazzico in realtà molto grandi di questo settore, non sono mai incappato né ho avuto il minimo sentore di una recensione comprata in senso stretto. Possono esserci sponsor, ma quelli devono essere segnalati per legge, e a parte casi epocali (e vecchissimi) che sono però usciti subito allo scoperto, la questione che voti troppo alti o bassi derivino da bustarelle scambiate in vicoli bui con filtro seppia è una comoda illusione che da sempre riempie le vuote esistenze di chi si nutre di bias di conferma, vive di brama verso il fallimento altrui e defeca puzzolenti pareri sensati solo nei circoletti di gente stampata a loro immagine e somiglianza. Difficile dire cosa sia andato storto coi primissimi, entusiastici pareri sul gioco, e stare qui a fare ‘la recensione delle altre recensioni‘ non è neanche nel mio stile. Siamo nel campo delle ipotesi e cercare un colpevole unico è un’impresa ardua; certamente, alcuni dei voti delle grandi testate estere sono sembrati assurdi persino a me. Non farò nomi, ma un paio di recensioni in particolare sembrano parlare quasi di un altro gioco rispetto a quello che ho provato io. Le stesse persone, tra l’altro, uscirono già contentissime dopo l’insolitamente approfondita fase di test in anteprima, a differenza di molti altri che mossero dubbi più che sensati. Ancora, non credo si possa parlare di reale malafede, ma solo di persone poco adatte o poco preparate a trattare un titolo così importante; la teoria del pubblico è che l’anteprima abbia chiarito a EA a chi dare priorità, ma questo non lo sapremo mai.
Ciò che è certo è che per quanto possa esserti piaciuto The Veilguard, ed è legittimo, pensare di poterlo accostare ai migliori prodotti sfornati dalla BioWare dei tempi d’oro è un’iperbole inaccettabile sotto troppi punti di vista. Piuttosto che inventare casi di corruzione sul nulla, si puntasse il dito verso un’editoria videoludica che sempre meno può permettersi la penna di un esperto. Quando mancano i soldi, quello qualitativo è il primo declino a cui si va incontro, e trovare spazi digitali occupati da “gente a basso prezzo presa dalla strada” è sempre più comune. Per un motivo o per un altro, quindi, intorno a The Veilguard è stato dipinto un quadro iniziale ben più roseo di quello reale, con pareri più duri arrivati sulla rete con eccessivo ritardo.
Tolto il dente, tolto il dolore. Codici review spediti vicino alla scadenza dell’embargo, ritmi lavorativi difficili da reggere e poco tempo per metabolizzare l’esperienza sono le motivazioni principali per cui una recensione può essere poco attendibile, senza dover per forza scomodare l’ombra di favoreggiamenti monetari o simpatie politiche. A tal proposito, questa recensione non scaverà molto nel merito delle famose ‘politiche woke‘ di cui Dragon Age: The Veilguard si farebbe promotore, per due motivazioni ben precise. La prima è che la saga di Dragon Age, da tempo immemore, è in realtà apprezzatissima e lodatissima nelle comunità LGBTQ+ anche perché pioniera nella rappresentazione di identità di genere e preferenze sessuali. C’è sempre stato spazio per il poliamore o per le coppie meno classiche, con già Inquisition che rimpolpava le nostre fila di personaggi transgender (Krem) o omosessuali (Dorian, addirittura cacciato dalla sua stessa famiglia per aver amato un altro uomo). La seconda motivazione è che, davvero, non mi interessa per nulla discuterne. The Veilguard è un gioco a tutto tondo, pieno di contenuti e complesso di suo, e non merita che il chiacchiericcio si fermi a una singola questione. Dovessi dire la mia, credo siamo di fronte all’ennesima casistica che ha mescolato ignoranza e intolleranza e ha finito per nascondere ciò che di buono potesse nascere da alcune lamentele. Lamentele che, in alcuni casi, partivano anche da basi sensate ma raggiungevano come sempre la conclusione sbagliata.
Il problema di Dragon Age: The Veilguard non è la propaganda – perché, sorpresa sorpresa, c’è sempre stata – ma il modo in cui la tratta. E quello non è una mossa politica, ma una manchevolezza della sua scrittura. Ed è quello di cui dovrebbero lamentarsi tutti quegli youtuber che, col faccione rosso rosso, leggono i fondi di caffè alla ricerca dei numeri del flop, o che fingono di parlare di gameplay ma sbattono in copertina il PG non-binario ridicolizzandolo e deformandogli le facce con Photoshop.
Si dovrebbe parlare più di come il gioco sia spesso superficiale e infantile, e non solo quando tratta di l’identità sessuale, ma anche di politica, religione, gerarchie o moralità. Non è un problema di cosa tratta ma di come lo fa, ed è una piaga ben più diffusa della cicatrice post-operazione al seno o del pronome con cui ci si sente più a proprio agio. La sensazione generale è che ci si trovi davanti a qualcosa che a malapena abbracci le tematiche, lo stile o il modo di porsi di un Dragon Age. Peggio ancora, non sembra nemmeno diretto alle stesse persone che hanno amato la saga di Bioware.
Crisi d’identità?
Fossilizzarsi su quanto sia diverso dai capitoli passati, in verità, è altrettanto stupido. Stupido non solo perché è trascorso un decennio dal terzo capitolo – e, in campo videoludico, dieci anni corrispondono a un’era geologica – ma anche perché Dragon Age, un’identità precisa, non l’ha neanche mai avuta. Origins era un dark fantasy GDR puro, Dragon Age 2 un dungeon crawler più action, mentre Inquisition un mostro di Frankenstein a metà tra open world e MMO.
Eppure, anche al netto di meccaniche distanti anni luce, un filo conduttore era facile da trovare anche nei capitoli meno riusciti: scrittura profonda, personaggi mai scontati e un mondo marcio e corrotto da salvare (o radere al suolo). C’era morte, desolazione, distruzione e scelte difficili, molto difficili. C’erano tradimenti, sotterfugi e giochi di potere a palazzo. E, ultime ma non ultime, c’erano intere questioni che venivano risolte dietro le quinte, con pugnalate alle spalle e lingue più taglienti di quegli stessi pugnali.
The Veilguard non ha niente di tutto ciò, o quasi mai lo ha, e non voglio neanche farlo passare per un problema in senso assoluto; significa semplicemente che è fatto di tutt’altra pasta, sia nel suo modo di approcciarsi al combattimento che nella pura narrativa. Il suo fantasy, anche già solo visivamente e nel design delle creature, strizza palesemente l’occhio a un pubblico giovane, accecando con il suo ‘viola Fortnite‘, sbloccando forzieri con esplosioni di monete degne di una lootbox ed evitando piè pari ogni discussione scomoda, senza mai mettere sulla bilancia la moralità dei suoi personaggi più grigi.
Nonostante abbiamo in squadra dei mercenari assassini, in un modo o nell’altro, si finisce sempre per evitare il peso del loro stile di vita. Spesso, deragliando il focus su hobby bizzarri o simpatici gusti culinari, tanto per dirne una. C’è sempre questa perenne atmosfera giocosa e leggera, con linee di dialogo anche interessanti ma che si chiudono troppo velocemente, quasi avessero paura di annoiare il giocatore occasionale. Ed è un peccato, perché sembra una Ferrari col freno a mano tirato: i personaggi sono anche buoni e le loro storie interessanti, ma si ha sempre quel retrogusto che manchi la possibilità di conoscerli davvero a fondo perché il gioco va troppo di fretta per potersi soffermare sui particolari. Quegli stessi particolari che, in realtà, fanno la differenza tra un capolavoro e un semplice buon gioco.
Dragon Age: The Veilguard nasce e muore quindi come un monumento al compromesso, una continua via di mezzo che cerca di strizzare l’occhio a nuovi e vecchi giocatori, ma che alla fine non accontenta al cento percento nessuno dei due. Da un lato, hai un seguito attesissimo ma che ha stravolto completamente il suo stile; dall’altro, una storiella per ragazzi molto più vicina a un Harry Potter che a un Dragon Age, ma che comunque condivide con quest’ultimo lore e vicende così vecchie che, con tutta probabilità, quei giovanissimi neanche conoscono. Ironia della sorte, quello confuso sulla propria identità sembra essere proprio The Veilguard, che fin dall’inizio non decide un percorso unico da imboccare e che sembra vittima, come ormai la stragrande maggioranza dei progetti Electronic Arts, di uno sviluppo che ha cambiato direzione chissà quante volte nel corso degli anni.
Ma se il cuore restituisce un sapore amaro, il cervello continua a ricordarmi che un prodotto va sempre giudicato per quello che è, e non per quello che avremmo voluto che fosse. E la verità è che il gioco è ok. Può divertire persino, ha spunti interessanti qui e lì ed è sorretto da un comparto tecnico di tutto rispetto, che lo rende sempre bellissimo da vedere. Tanto al fermo immagine quanto in movimento, il mondo del quarto Dragon Age è splendente, magico, quasi fatato; completamente diverso da ciò a cui eravamo abituati ma, va ammesso, sempre mozzafiato. Con la scusa degli Eluvian, specchi magici che fungono da veri e propri portali per altre terre, ci ritroveremo a visitare zone sempre diverse e godere di ecosistemi e architetture continuamente sorprendenti. Si passa dal magepunk di Minrathous all’high fantasy della foresta di Arlathan, dal rinascimento italiano di Treviso alla più cupa Dock Town, dal feeling tropicale di Rivain all’atmosfera mistica ed eterea delle Crossroads. Nessuno di questi ambienti è mai riconducibile allo stile classico di Dragon Age ma, ehi, funziona e va benissimo così. Come dicevo, è prendere o lasciare.
Non tutto è da buttare
Prima mi sono reso conto che questo gioco non fosse diretto a me, o a un fan di vecchia data in generale, prima ho smesso di scambiare scelte stilistiche per errori, e di addossargli colpe che non sempre ha. Lo stile eccessivamente saturo, patinato e cartoon dei suoi personaggi mi è subito stato indigesto, ma è solo ed esclusivamente per gusto personale. Sarebbe stato molto più interessante se il dibattito online, piuttosto, si fosse concentrato su ciò che The Veilguard sbaglia o fa oggettivamente bene, perché c’è tanto da ambo le parti e quasi mai ne ho visto parlare con lucidità. Se proprio dovessimo riassumere su carta i suoi volti principali, cerchierei col pennarello tre anime ben distinte: quella adventure, quella action e quella GdR. Ognuna di queste si lega alle altre con risultati altalenanti, e sarebbe più costruttivo parlare di come e dove inciampa, piuttosto che fossilizzarsi sugli specchietti per le stolte allodole.
In ordine, ciò che gli riesce meglio è nell’anima dungeon crawler. Abbandonando i mondi aperti e stracolmi di attività ripetitive (Inquisition, sto guardando proprio te), The Veilguard si presenta più imbottigliato e sui binari del suo predecessore. Eccezion fatta per le primissime ore, davvero soffocanti nella loro linearità, nel momento in cui apre la possibilità di scegliere in che ordine visitare le aree principali, o quando e come tornare sui propri passi per aprire zone opzionali di quelle già visitate, il gioco diventa molto più interessante.
Un platforming migliorato, degli enigmi ambientali di difficoltà crescente e una piccola spruzzata di metroidvania rendono le aree intricate il giusto e divertenti da esplorare da cima a fondo. Una comoda minimappa non ci fa mai perdere completamente la bussola, o la presenza di forzieri più importanti, ma il design intricato di ogni livello costringe sempre ad aguzzare l’occhio e a ragionare su come raggiungerne ogni minimo anfratto. Se consideriamo la sola esplorazione dei dungeon, siamo forse di fronte a uno dei migliori Dragon Age di sempre, e questo anche grazie a un rapporto ponderato tra vastità e densità. Quest primarie e secondarie sono ben organizzate, mentre lootare, scarpinare e aprire percorsi con nuovi compagni non stanca mai, anche perché il tutto è sorretto da una velocità d’esecuzione che sognavamo da tanto, tanto tempo.
Il sistema di combattimento, dal canto suo, è anch’esso più in linea con i gusti moderni. Sempre se di gusti moderni si può parlare. La leggenda che il pubblico di oggi preferisca giochi più dinamici agli RPG nudi e crudi è ancora tutta da dimostrare, e il successo di un Baldur’s Gate 3 fedele all’anima del genere rispetto a un Final Fantasy 16 che ha cambiato completamente filosofia senza ottenere i risultati sperati, dimostra che niente di tutto ciò è da dare per scontato.
Dragon Age: The Veilguard è un action puro, di quelli dove un party è anche presente ma non puoi controllarlo in alcun modo. Dovessimo fare un paragone, è più vicino a un Kingdom Hearts a caso, con companion vagamente indirizzabili nei loro comportamenti e strategie, che a un qualsiasi Dragon Age o Classic RPG. Se pad alla mano il feeling di animazioni, schivate e contrattacchi è incredibilmente soddisfacente, l’impossibilità di pilotare altri personaggi rende il tutto eccessivamente monocorde.
La scelta iniziale del nostro “Rook” è fra tre classi basiche (guerriero, mago e ladro) ma l’incapacità di testare opzioni diverse una volta avviata la partita ha spinto Bioware a correre ai ripari in vari modi, quasi tutti fallimentari. Il party è immortale, e quindi saremo solo noi ad attirare l’attenzione dei nemici. Maghi e ladri, in questo senso, avrebbero avuto troppi svantaggi rispetto a un guerriero puro, e di conseguenza ogni classe si è ritrovata un’iniezione di versatilità atta a renderla gestibile in ogni situazione. Il pro è che ogni Rook può scampare ad agguati di ogni tipo; il contro, ovviamente, è che le tre classi finiscono per somigliarsi un po’ tutte.
Noi che abbiamo creato un Rook mago, ad esempio, eravamo forti dalla distanza tanto quanto resistenti nel corpo a corpo. È possibile passare velocemente dal bastone arcano alle armi bianche e, pur non avendo uno scudo o una schivata, barriere magiche e fade-step funzionano esattamente come tali. Il risultato è che, qualunque sia la vostra vocazione, ogni classe funziona come guerriero, mago e ladro allo stesso tempo. Ed è sicuramente un forte contraccolpo alla rigiocabilità o all’importanza di qualsivoglia scelta iniziale. Ogni giocatore avrà simili possibilità di parry, di evasione degli attacchi nemici e di gestione di gruppi da qualunque distanza. Le varie tecniche potranno anche cambiare aspetto ma il metodo di utilizzo è praticamente identico.
Se il feeling della battaglia è però sempre soddisfacente (eccezion fatta per un lock on che tende a perdere il nemico a ogni movimento brusco di telecamera), a esaurirsi in fretta è proprio la profondità strategica e del suo albero delle abilità. Fossilizzarsi su un unico personaggio per decine di ore è già un limite di per sé, ma la scarsità di slot rapidi a cui attingere è ciò che fa invecchiare il combat system più velocemente del dovuto. Se in Inquisition era possibile mappare fino a dieci tecniche allo stesso tempo, in questo caso sono limitate a solamente tre. Più prima che poi, ci si ritrova nella condizione di avere decine di magie differenti ma impossibili da utilizzare in contemporanea. Per questo motivo, piuttosto che entrare e uscire dal menu e cambiare il set a ogni battaglia, si finisce per limitarsi alle solite mosse e a utilizzarle fino alla nausea. Il problema è che funziona. Perché le abilità avranno anche nomi ed effetti particellari tutti differenti, vero, ma alla fine della fiera si limitano ad attacchi sul singolo o colpi ad area, solo di elementi diversi. Lo stesso vale per la scelta dei compagni, poco più di una distrazione. La pausa tattica può tornare utile per dare ordini a tutti senza fretta, ma il sistema di combo condivide la scarsa profondità del resto, e in poco diventa una routine automatica a cervello spento.
La semplicità d’esecuzione è un mantra – o forse una maledizione – che segue l’intero prodotto come un’ombra perenne, e persino la scelta dell’equipaggiamento è altro fumo negli occhi. In un gioco dove le uniche caratteristiche da tenere d’occhio sono attacco, difesa e capacità di stordimento, scambiare armi e armature puntando solo ai numeri più alti diventa presto una comodità. Le decine di effetti secondari sono macchie inutili sullo schermo, e la verticalità del potenziamento fa sparire qualsiasi senso dietro set di oggetti differenti. Alla fine della fiera, il gioco che più di tutti avrebbe dovuto fornire varietà strategica, vista l’enormità e la versatilità del suo skill tree, è proprio quello che ci fa sperimentare meno in assoluto. Un peccato capitale che va a intaccare nel medio e lungo termine un sistema di combattimento che in realtà funziona, reagisce e diverte fino a un triste e prematuro esaurimento.
La componente ruolistica in Dragon Age: The Veilguard è quella che delude più di tutti. Qui si potrebbe aprire un capitolo a parte solo per raccontarne i mille perché, ma qualcosa ve lo avevamo già anticipato. Abbiamo la scarsa profondità strategica in battaglia, in primis, ma anche innumerevoli problemi scaturiti dalla superficialità della sua narrazione. Se il grandioso editor del personaggio può soddisfare la fantasia estetica di ogni giocatore, la stessa libertà non è mai pervenuta durante la forgiatura del carattere. In generale, la sensazione è che, a parte rarissimi casi, non si abbia mai chissà quale potere di cambiare gli eventi o di imporsi in maniera più personale. Il tono leggero dell’avventura si riflette anche sulle opzioni di dialogo, mai dure quanto vorremmo, e sull’impossibilità di ‘ruolare‘ o plasmare un mondo in cui possa alloggiare una minima parvenza di cinismo o malvagità. I continui siparietti comici, gli animaletti ‘pucciosi‘ da coccolare e l’incapacità del copione di soffermarsi sul marcio del suo mondo, accompagnano una storia che parla continuamente di fine dell’umanità ma che non trasmette mai quella sensazione o un senso di urgenza.
Tra colori accesi, magiche creature e dialoghi melensi anche nelle situazioni più tese, un osservatore distratto potrebbe finire per scambiare The Veilguard per un DLC di Hogwarts Legacy. I punti alti ci sono, soprattutto nel prologo e nell’epilogo, ma troppo pochi e troppo tardi. Non tutto è da buttare, però. Ad esempio, abbiamo apprezzato la grande mole di missioni esclusive dedicate ai vari membri del party. Se in Inquisition era possibile sbloccare incarichi importanti legati agli amici solo a conclusione di una romance, in Veilguard è molto più comune finire a scarpinare con Bellara, Neve o Tash e a scoprire di più sul loro carattere e idee.
Quello che pesa è sicuramente la recita a senso unico del proprio Rook, bloccato all’interno di un percorso dove non esistono bene e male, ma solo vari gradi di gentilezza. Il range interpretativo spazia dal paladino gentile al duro altrettanto gentile, e questo vale anche per i nostri commilitoni, persino in caso di cacciatori sanguinari, killer prezzolati o rivoltanti negromanti. L’incapacità di The Veilguard di scavare nelle ideologie del singolo individuo si riflette poi sulla puerilità della società, delle organizzazioni e dei meccanismi del mondo intero. Accadono cose terribili, nell’universo di The Veilguard, ma non ci si sofferma mai con le giuste modalità. Ogni volta che si sente la vaga puzza di un argomento scottante, il gioco glissa e taglia corto, come se non volesse ammorbare con eccessivi dettagli o, peggio ancora, sottovalutasse la soglia d’attenzione e l’intelligenza del suo pubblico.
Dragon Age: The Veilguard – Conclusioni
In definitiva, il nostro parere su Dragon Age The Veilguard è forse il più banale di tutti: “È bravo ma non si applica“. Ma quell’ombra c’è, la sensazione che avrebbe potuto dare di più.
Era obbligatorio? Assolutamente no. Era lecito aspettarsi altro dopo un’attesa decennale, e da un team con tale storia alle spalle? Quello sicuramente. La verità è che, per quanto la pubblica piazza abbia deciso il contrario, The Veilguard non è assolutamente un gioco da buttare, né un prodotto impresentabile o disastroso. Ho giocato tanta spazzatura nel corso degli anni, anche e principalmente per lavoro, e riconosco al volo un brutto gioco quando lo vedo.
Il quarto, e forse conclusivo, episodio di Dragon Age offre un pacchetto discreto, tecnicamente molto pulito e confezionato con cura, ma che a causa di numerose scelte scellerate restituisce sensazioni ben più dolorose del semplice ‘prodotto spazzatura‘. Quasi ogni suo aspetto è controbilanciato da enormi limiti, voluti o meno che siano, e se è vero che lo stile artistico quasi irriconoscibile può ineluttabilmente allontanare i fan più puri fin dal primo minuto, è altrettanto vero che vari barlumi di qualità mostrano come un gioco discreto sarebbe potuto essere molto di più, si fosse liberato di molti compromessi.
The Veilguard è un pessimo Dragon Age ma non di certo un pessimo gioco. È un buon dungeon crawler, per dirne una, controbilanciato purtroppo da un sistema di combattimento sì divertente ma poco stratificato, oltre che da una componente ruolistica limitata tanto in fase di min/maxing quanto nella pura e semplice interpretazione. Un velo di mediocrità steso sui suoi aspetti principali non permette alle caratteristiche migliori di brillare, e questo pesa doppiamente agli occhi di un’opinione pubblica che ha sancito la gogna mediatica a priori per i motivi più disgustosi. Dispiace doppiamente che una discussione potenzialmente costruttiva si sia troppo presto spostata in ambiti che col videogioco in sé non c’entrano assolutamente nulla.
Perché il problema di fondo di questo Dragon Age è sì ideologico, ma non come molti trend lascerebbero immaginare. Il problema non sono i personaggi non binari, ma il buonismo di cui è intriso il suo mondo, figlio di un politically correct da cui i cugini d’oltreoceano non sembrano potersi affrancare. Tutto è gentile ed edulcorato, quasi a non voler urtare la sensibilità di nessuno, ed è lì che va a perdere completamente di senso e anima. Le scenette in cui ci si scusa per l’utilizzo del pronome sbagliato diventano quindi la conseguenza di questa direzione, non la premessa. I veri fan di Dragon Age, quel gruppetto che ha mosso lamentele con criterio, mai avrebbero battuto ciglio di fronte alle questioni di genere, si fossero trovati davanti a vera qualità. Il rumore causato dalla gente stupida, invece, è tutto un altro paio di maniche e mettiamolo un attimo da parte.
La chiassosissima e imbecille polemica che tira in ballo i temi LGBTQ+ diventa presto una scusa, da ambo le parti, per rimbalzarsi una colpa che si doveva fin da subito ricercare altrove. Ma il mondo ha preferito dare voce alla solita polemichetta, sotterrando ciò che di buono si poteva dire. Abbiamo perso ancora una volta l’occasione di apparire adulti e di mostrare a una BioWare persa nell’oblio (e palesemente nelle mani sbagliate) la strada corretta da intraprendere, così da potersi migliorare in futuro. Ciò che resta tra le mani è un prodotto fallace e limitato, puntellato qui e lì da brillantezza e mediocrità, e con cui è persino facile divertirsi senza pretese e a cervello spento.
Purtroppo, Dragon Age: The Veilguard finirà comunque per essere ricordato più per la discussione che l’ha circondato che per i tanti meriti e demeriti. Neanche a dirlo, gli estremisti dell’una e dell’altra fazione hanno schiacciato l’utilità della discussione sotto quintali di sterco e schiamazzi, soffocando la voce di chi l’ha apprezzato o odiato per motivazioni più che lecite. Motivazioni che magari avrebbero aperto gli occhi a team, publisher ed emuli negli anni a venire, e fatto nascere boccioli migliori proprio dalla carcassa di questo titolo e di chi come lui ha fallito e continuerà a fallire.
Perché c’è un solo modo per avere prodotti migliori, e quello è fare rumore con criterio. Siamo di fronte all’ennesima, ulteriore sconfitta di un media che purtroppo continua a maturare più velocemente dei suoi fruitori.