Benché a ogni individuo piaccia sostenere il contrario, l’essere umano è generalmente incapace di analizzare la propria condotta in modo obiettivo. Endemicamente refrattari a ogni concreta forma di autocritica, preferiamo attribuire ad altri i difetti che ci affliggono per attribuirci doti di cui non disponiamo come, ad esempio, la capacità di approcciare le nostre passioni senza sviluppare un legame morboso con le figure, i brand e i prodotti che sentiamo più vicini ai nostri gusti personali.
Nel preciso istante in cui scatta la proverbiale scintilla, si finisce difatti per smettere i comuni abiti da civile per indossare l’armatura di un crociato pronto a sostenere la propria fede in modo tanto incondizionato quanto cocciuto. Ciò accade in politica, in ambito religioso, in campo sportivo e, a lungo andare, anche in fatto di videogame. Senza timore di essere smentiti, possiamo anzi affermare che, nel nostro mirabolante settore, questa forma di fanatismo sia particolarmente diffusa ed equamente ripartita in cieco amore per chi sosteniamo e vile odio per ogni eventuale alternativa. Essendo bravi crociati, non possiamo del resto saziarci di sola devozione, ma abbiamo anche e soprattutto bisogno di uno o più infedeli cui dar la caccia!
Dal giorno in cui iniziammo prediligere la comunicazione via Rete al suo corrispettivo fisico, quello che era rimasto un fenomeno circoscritto a fazioni che avevano ben poche occasioni per confrontarsi, si è tuttavia trasformato in una battle royale senza confini, rea di aver spinto milioni di utenti a far del gaming un terreno di scontro ideologico, piuttosto che un porto franco in cui condividere emozioni positive. Come accade di sovente quando la ragione lascia il posto all’idolatria, la realtà ha presto assunto connotati grotteschi e il pregiudizio si è infine imposto quale unico principio di riferimento. Sulla base di queste premesse, il popolo dei videogiocatori non ha potuto così far altro che suddividersi in molteplici correnti settarie, arrivando a fondare comunità che boicottano d’ufficio ogni titolo firmato da un dato sviluppatore, supportare movimenti parareligiosi volti a venerare determinati game designer alla stregua di guru spirituali ed unirsi a violente brigate di ultrà pronte a sabotare la concorrenza a colpi di review bombing ogni qualvolta il capopopolo di turno lo ritenga necessario.
In quest’indistinto marasma di bieche meschinerie, aspri rancori, velenose maldicenze e rappresaglie squadriste, lo scopo originario del videogioco inteso prima come forma di intrattenimento e quindi come fenomeno d’aggregazione è divenuto del tutto marginale, con conseguenze catastrofiche sulla salute dell’intero sistema. A forza di abbeverarsi presso pozzi avvelenati, l’industria di riferimento non poteva infatti che ammalarsi e restituire al mondo un prodotto inesorabilmente deformato da bieco fan service, predatorie strategie di monetizzazione volte a lucrare sulle spalle degli estremisti di cui sopra, ridicole forzature socio-culturali e prezzi al dettaglio da inchiesta federale.
Forse perché storditi dai feroci ritmi del sistema o magari perché inconsciamente complici di questa deriva, molti di noi faticano ormai a percepire l’anomalia del contesto in cui siamo costretti a vivere la nostra passione, tanto da ritenere che il tutto sia assolutamente normale. In tal senso, sarebbe allora giunto il momento di ribadire a gran voce che no, tutto ciò non è affatto normale e ancor meno corretto: non è infatti giusto stroncare Assassin’s Creed Shadows senza neanche provarlo perché si è scelto di identificare Ubisoft come simbolo di orwelliane corporazioni multinazionali; non è giusto ritenere che Nintendo rappresenti un modello di virtù nonostante pretenda di sfilarti 60 euro a pezzo anche quando ti propina la remastered di un titolo vecchio di quindici anni; non è giusto dividere gli stessi videogame in roba da pivelli e roba per chi gioca forte né costringersi a giocarli solo per tener fede al proprio culto… Più di ogni altra cosa, non è infine giusto pretendere che l’industria videoludica diventi più sana, democratica e sostenibile quando non siamo disposti a cambiare di una virgola quest’infantile approccio al medium. Se è vero l’unico punto su cui tutti gamer del mondo siano d’accordo riguardi la necessità di una riforma radicale dei modelli di business cui il settore risulta asservito, occorre pertanto guardarsi allo specchio e ricordarsi che, alla fin fine, ogni sistema si limita a dare al suo pubblico ciò che esso chiede, nel modo in cui lo chiede. Va da sé che il cambiamento dipenda solo ed esclusivamente da noi e che debba partire dal rapportarsi al prodotto con più equilibrio nei giudizi, rispetto per gli sviluppatori e moderazione nel formulare le proprie critiche.