Just Dance
Chi ci ha seguito durante il corso dell’evoluzione di For Honor lo sa già. L’ultimo di Ubisoft basa le sue meccaniche su un sistema di attacco e difesa piuttosto peculiare, diremmo quasi unico nel suo genere. Utilizzando la levetta destra, infatti, possiamo alternare tre differenti pose di combattimento, ognuna relativa a una precisa direzione.
Spostando lo stick verso sinistra, quindi, sferriamo il successivo attacco proprio da sinistra, e così via. Se sia noi che il nostro avversario abbiamo optato per la medesima posa, allora il successivo fendente sarà nullo. L’obiettivo è perciò quello di ingannare il nemico e cercare uno spazio in cui infilarsi, e questo si traduce in danze della morte in cui i due guerrieri alternano offesa e difesa con una velocità disarmante, finché uno dei due non ne esce vincitore.
È vero che, a lungo andare, il sistema inizia anche a diventare meccanico, ma “meccanico” e “scontato” sono due parole dal peso abbastanza differente. È fisiologico che, dopo un po’, si inizi anche a viaggiare su una solita linea d’onda, ma apprendere le basi è una cosa – e, qui, ci riescono tutti – mentre riuscire a metterle in pratica con efficacia è un altro paio di maniche. Qui, abbiamo a disposizione attacchi leggeri, attacchi pesanti, spezza-guardia, contro spezza-guardia, parry e persino abilità uniche relative al singolo guerriero.
Ogni tecnica, tra l’altro, richiede un preciso quantitativo di stamina; titoli del calibro di Dark Souls ci hanno già messo in guardia dai pro e contro di un sistema simile. Attaccare senza cognizione di causa ci risucchia ogni energia e a quel punto, vogliamo assicurarvelo, dovremo solo pregare.
Un paio d’ore e tutti saranno capaci di alternare le varie pose, o di riconoscere quando utilizzare un certo tipo d’attacco anziché un altro, ma riuscire ad amalgamare ogni concetto in un unico, fluente stile di battaglia? Quella è esclusiva dei professionisti. Se è vero che tale profondità è largamente apprezzabile durante gli 1vs1 o i 2vs2, i più estesi 4vs4 spingono invece maggiormente sul gioco di squadra. Uccidere non è sempre l’unico obiettivo, tant’è vero che la modalità più complessa è proprio quella di conquista e difesa di precise zone della mappa. Qui, a contornare il tutto ci sarà anche un esercito di “minion” guidati dall’IA che restituiscono alla grande la sensazione di una battaglia campale senza esclusione di colpi.
Purtroppo, ciò che più fa male a For Honor è la confusione. Più è vasto lo scontro, più vengono a galla tutti quei problemini del battle-system che, purtroppo, difficilmente potranno essere corretti. Il sistema di lock-on, ad esempio, non è affatto adatto agli scontri multipli; trovatevi in inferiorità numerica e, ve lo assicuriamo, avrete il pomeriggio rovinato.
Sì, il gioco ci permette comunque di difenderci dagli assalti di due avversari contemporaneamente, ma il caos a schermo, la telecamera troppo ravvicinata e la poca intuitività la fanno da padrone, in questi casi. In breve tempo, si finisce quindi per relegare gli scontri campali a quelle giornate in cui si è in compagnia di amici fidati. Ed è proprio così che For Honor scoraggia i giocatori più occasionali.
Un paio d’ore e tutti saranno capaci di alternare le varie pose, o di riconoscere quando utilizzare un certo tipo d’attacco anziché un altro, ma riuscire ad amalgamare ogni concetto in un unico, fluente stile di battaglia? Quella è esclusiva dei professionisti.