In una recensione di Forspoken, è quasi impossibile non parlare di Luminous Production, lo studio di sviluppo già autore di quello che fu il quindicesimo capitolo della saga di Final Fantasy. Ora non ci metteremo di certo a fare un’approfondita disamina delle vicissitudini di un progetto soffertissimo, più volte riconcettualizzato e foriero di polemiche a non finire, ma di sicuro il team nato proprio per produrre le migliori IP di Square aveva la necessità di un riscatto.
Forspoken doveva essere questo: una sorta di banco di prova a cui Sony aveva dato fiducia e che non poteva fallire. Luminous aveva tempo, risorse e collaborazioni in fase di concept con professionisti del calibro di Gary Whitta (Rogue One) e Amy Hennig (Uncharted, Legacy of Kain). Insomma, il team aveva un orizzonte produttivo e creativo che aveva come unico obiettivo quello di creare una IP che doveva affiancare veri e propri mostri sacri, come i Dragon Quest e i Final Fantasy, ma qualcosa è andato maledettamente storto.
Forspoken è impostato secondo le tradizionali coordinate del genere isekai, che vede un protagonista intrappolato in un mondo fantasy e ben si adatta a quel filone letterario rappresentato da opere come Alice nel Paese delle Meraviglie o il ciclo di Narnia. Questa condivisione di immaginari non è puramente casuale, ma è l’asse sul quale gli sviluppatori hanno agito per conferire a Forspoken un’impronta decisamente occidentalizzata.
L’avventura della giovane orfana Frey inizia tra le aule di un tribunale dello stato di New York, dove riesce a schivare una sicura condanna per furto ma, una volta uscita, non può sottrarsi all’agguato di una gang con cui ha un debito da saldare. Una circostanza da cui Frey riesce a scappare solo momentaneamente, perché poi i malviventi arriveranno a incendiarle l’appartamento in cui abitava insieme al gatto Homer.
La difficile situazione emotiva la porta sull’orlo del suicidio ma, improvvisamente, uno strano scintillio interviene a distoglierla dai fatali intenti per condurla verso un strano ed elaborato bracciale dorato, che la teletrasporterà nel magico mondo di Athia. Completamente frastornata, Frey scoprirà che quello strano monile, Cuff, non solo l’ha condotta in un universo parallelo, ma è anche dotato di una propria volontà e del dono della parola. A questo punto, l’inedito duo diventerà l’artefice del destino di questo mondo devastato da una misteriosa forza demoniaca, che vuole distruggere ogni forma di vita.
Così come anticipato, Forspoken prende corpo in quelli che sono i fondamentali del genere isekai, caratterizzando il personaggio di Frey come una ragazza problematica, sfiduciata e poco incline a confronti dialettici distesi. Quest’ultimo tratto, in realtà, diventa il cardine su sui si basano gran parte dei dialoghi iniziali con Cuff, originando una serie di scambi di battute sagaci e brillanti.
Una connotazione che permarrà anche quando Frey conoscerà altri personaggi ma che, inesorabilmente, lascerà il posto a dialoghi improntati a uno sfrontato menefreghismo e pedante autocommiserazione che risulteranno, in più frangenti, irritanti. In particolar modo le elucubrazioni della protagonista sulla necessità di dover uccidere per potersi difendere diventeranno quasi irragionevoli e prive di sana logica, per poi risolversi con un ancor più illogico cinismo sulle sorti del popolo di Athia.
Seppur volessimo contestualizzare il tutto in un quadro di crescita dell’eroe classico, dove un protagonista riluttante sceglie consapevolmente di assumersi le proprie responsabilità attraverso un percorso di maturazione interiore, la trama di Forspoken improvvisamente prende una accelerazione che salta totalmente la fase di catarsi per avvitarsi in una serie ravvicinata di plot twist, sfociando in una conclusione brutale che lascia piuttosto attoniti.
In generale, la sensazione che ne abbiamo ricavato è che manchi qualche passaggio narrativo che possa meglio descrivere le fasi di crescita personale della protagonista che, attualmente, sembra aver preso in considerazione il suo ruolo di eroina solo per motivi assolutamente egoistici e narcisistici.
Queste nostre ipotesi di tagli di contenuto in corsa prendono in considerazione anche lo stato delle cutscene e il contenuto delle missioni secondarie. Le prime, al netto dei limiti tecnici del motore grafico, spesso risultano non affinate , risolvendosi in lunghe dissolvenze al nero senza alcun tipo di transizione dove, una volta concluse, il giocatore deve attendere misteriosamente fin troppi secondi prima di recuperare il controllo sul personaggio. Anche le più semplici carrellate di presentazione dello scenario appaiono in semplice sequenza, come fossero attaccate frettolosamente una dietro l’altra.
Le secondarie invece sono semplicemente orpelli privi di reale contenuto ludico, e tradiscono in parte quel gusto nipponico che mal si concilia all’andamento generale fortemente occidentalizzato dell’opera. Altri elementi minori presentano un’approssimazione per noi incomprensibile, come lo skip singhiozzante dei dialoghi e una scarsa resa delle animazioni facciali dei personaggi.
Tutti questi aspetti che afferiscono al comparto narrativo ed estetico risultano ancor più stridenti se messi in confronto a quello che è il vero punto di forza di Forspoken: il combat system.
Quest’ultimo è infatti un gioiellino ludico che, fin dalle prime battute, ci ha letteralmente conquistato con la sua spettacolarità e dinamismo. Esso si basa totalmente sul lancio di quattro diverse tipologie di magie denominate Scuole (terra, acqua, fuoco, elettricità), ognuna delle quali possiede un proprio albero delle abilità diviso in incantesimi di supporto e attacco puro. La gestione in combattimento degli stessi è affidato a più ruote dei poteri rapidamente richiamabili in base a cosa vogliamo usare e concatenare.
Per esempio possiamo agilmente lanciare un attacco ad area di fuoco per poi passare alle frecce a ricerca elettriche e passare alla scuola acquatica. Inoltre, a ogni scuola corrisponde anche una modalità specifica di combattimento, quindi si passa dal corpo a corpo dell’elemento Fuoco, all’approccio tipico del TPS della Terra o allo scoccare frecce dell’Acqua. Tutte possibilità da usare secondo le debolezze specifiche di ogni tipo di nemico.
Il sistema fin qui descritto si arricchisce ulteriormente sia con la particolare mobilità del personaggio, basata sul parkour grazie al quale Frey riesce a schivare i nemici come una ginnasta olimpica, e sia con la magistrale gestione degli effetti particellari, di assoluta bellezza.
Ogni scontro, anche quello più risibile, diventa un’occasione di gioco soddisfacente sia dal punto di vista prettamente tecnico che estetico. L’unico vero difetto che possiamo ravvisare nel gameplay è sicuramente legato a un bilanciamento che tende al ribasso, il quale non inficia direttamente il combat system ma determina l’interesse del giocatore nell’esplorare la mappa di gioco.
Cosa significa in concreto? Le abilità magiche sono effettivamente sovralivellate, e quindi l’esplorazione di Athia, che è volta per lo più a creare occasioni di farming o all’acquisizione di equipaggiamenti specifici come i mantelli, diventa una attività poco interessante. Solo nelle ultime battute di gioco la difficoltà generale tende ad alzarsi mediante dei palesi trucchi di balancing piuttosto elementari nella loro implementazione.
Per esempio, gli sviluppatori hanno inserito dei nemici piuttosto fastidiosi, che sparano proiettili che infliggono danni oltre la media e possono in poche mosse ridurre la barra della vita a zero. Una soluzione che troviamo piuttosto banale rispetto al ventaglio di soluzioni possibili che si potevano applicare al caso specifico, sebbene non sia un errore di design in sé.
Qualche riga la vogliamo spendere per le bossfight, che si sono rivelate molto sceniche, godibili e spesso portatrici di soluzioni visive particolarmente interessanti. Detto questo, vi consigliamo vivamente di selezionare il livello di difficoltà massimo per poter godere appieno del potenziale di questo straordinario combat system.
Come anticipato, l’esplorazione della mappa di gioco, sebbene nella sua struttura non sia dissimile da tanti altri open world, non si giova delle specifiche caratteristiche di movimento della protagonista che, ricevuti tutti gli upgrade specifici, diverrà una specie di treno in corsa senza nulla che possa ostacolarla.
In buona sostanza, il giocatore non verrà mai messo alla prova con specifiche sezioni di mappa dedicate al padroneggiare quello che è, a tutti gli effetti, un parkour dopato al massimo che poteva essere sfruttato molto di più in chiave ludica, ma si limita invece a essere una godibilissima alternativa al viaggio rapido.
Anche qui la sensazione è che manchi contenuto, si avverte con una certa consapevolezza: basti semplicemente osservare il quantitativo di rovine e città deserte che non offrono null’altro che scontri, materiali ed equipaggiamento che sì, possono far felici i completisti, ma che non raccontano nulla del mondo di Athia prima del disastro.
Unica variazione sul tema sono i labirinti nascosti, che ripropongono una serie di battaglie e un boss finale non particolarmente sofisticati; le statue-sfida, che propongono combattimenti di vario genere e, soprattutto chi è amante dei gatti, potrà divertirsi a catturarli presso gli altari dei famigli per poi adottarli.
Stranamente quello che generalmente è un fiore all’occhiello di casa Square, cioè il comparto musicale, è del tutto anonimo e privo di intensità, pur avvalendosi del talento del compositore di God of War (QUI e QUI le nostre recensioni) Bear McCreary.
In conclusione, Forspoken ci ha lasciato piuttosto perplessi nella sua realizzazione complessiva, che sembra essere affetta da uno strano dualismo qualitativo che segna un solco profondissimo tra comparto narrativo e gameplay: da una parte c’è un combat system da manuale, che non possiamo che promuovere a pieni voti e speriamo venga preso in seria considerazione anche da altre case di sviluppo come esempio virtuoso.
Dall’altra abbiamo una narrazione affrettata e poco rifinita, che presenta una protagonista dalla caratterizzazione piuttosto discutibile in termini di scrittura e che non si giova di una presentazione adeguata ma che, al massimo, si attesta ad una realizzazione poco più che sufficiente.
Per quanto ci riguarda, Forspoken si prestava a spunti molto interessanti ma, per qualche misteriosa “magia”, si è trasformato in una inaspettata delusione.