
Chiunque abbia mai avuto occasione di scrivere su riviste e siti specializzati nel settore videoludico ha dovuto prima o poi incassare accuse di faziosità da parte dei sostenitori di autori o brand nei confronti dei quali si erano espressi pareri negativi. Spesse volte, la reazione degli utenti finisce per assumere carattere tanto aggressivo da lasciar supporre che molti tendano a prendere ogni eventuale perplessità come un’offesa personale, neanche si fosse trattato di aver attentato alla dignità di credo, famigliari o schieramento politico. Divenuti col tempo impermeabili a questo genere di episodi, buona parte dei giornalisti sono oramai abituati a liquidare ogni attacco con una serafica scrollata di spalle facendo fede al motto secondo cui la madre degli imbecilli sia sempre incinta. Altri non sono tuttavia in grado di lasciar correre e talvolta la delusione provata spinge a porsi interrogativi di ogni tipo, fino a lambire i confini della sfera sociologica. Perché non riusciamo, ad esempio, a coltivare le nostre passioni senza trasformarci in ultrà? Perché gli appassionati avvertono l’irresistibile dovere di battersi col resto del mondo per difendere i propri eroi ogni volta che il loro operato venga messo in discussione? E, soprattutto, perché non siamo in grado di costatare quanto possa essere ridicolo fare il tifo per un’azienda, odiare i prodotti altrui e detestare chiunque preferisca un altro marchio? Che ci si creda o meno, l’abusato riferimento alla stupidità delle masse non è l’unica risposta possibile e nemmeno quella più soddisfacente. Studi di prestigio rimarcano infatti che quest’attitudine sia figlia ad alchimie ben più complesse, come l’atavica necessità di far gruppo per consolidare la struttura delle nostre comunità e renderle meno vulnerabili alle minacce esterne.
Secondo la Social Identity Theory elaborata dagli psicologi Henri Tajfel e John C. Turner nel 1979, definire sé stessi in base all’appartenenza a un gruppo – sia esso politico, aziendale, calcistico e, aggiungiamo noi, videoludico – costituisce in effetti un elemento basilare del comportamento umano, nonché il principale codificatore dei nostri schemi sociali. Se estremizzato, questo modello adattivo induce tuttavia ad un endemico rafforzamento del concetto di “noi contro loro”, alimentando una fobia per il dissenso tale da spingere gli individui a compiere sacrifici personali o scontrarsi col prossimo pur di difendere il credo coltivato nel proprio gruppo di appartenenza. Non a caso, lo scopo stesso dell’adesione si sposterebbe nel tempo dal semplice sostegno alla causa ad una più intima tutela della propria posizione acquisita nel gruppo, il che condurrebbe inconsciamente ad adattare l’interpretazione di informazioni e fatti alla linea etica seguita da esso. Alla lunga, detto fenomeno porta a rifiutare ogni evidenza contraria, a rinforzare convinzioni alterate come quella di essere circondati da potenziali nemici e, infine, a reagire impetuosamente di fronte ad ogni possibile contraddittorio. Come ognuno di noi è in grado di testimoniare, il quadro che si è andato delineando risulta quanto mai fedele alla natura delle community più coese, laddove l’omogeneità del pensiero tende a consolidarsi in vere e proprie forme di integralismo: nel costante tentativo di preservare il consenso assoluto e la stessa compattezza del gruppo, gli individui che ne fanno parte arrivano persino a tacere ogni eventuale forma di dubbio, preferendo aderire ciecamente alla linea guida, pur di non rischiare l’esclusione. In questo particolare caso, le possibilità di stabilire un confronto equilibrato e costruttivo con l’opposizione esterna si riduce logicamente ai minimi termini, lo scontro diventa inevitabile e qualsiasi tentativo di riportare il confronto sui binari del buon senso risulta fatalmente vano. Dato che esimi antropologi, rinomati sociologi e diversi filosofi appartenenti ad epoche e culture differenti hanno convenuto che il primo ingrediente di una società salubre sia costituito dal dialogo inteso come libero scambio di opinioni, dovrebbe essere facile concludere che ogni forma di estremismo non costituisca solo un rischio per equilibri del sistema, ma anche una deriva controproducente. Eppure, a sfregio degli ultimi centomila anni di faticosa evoluzione, i Sapiens non sono ancora riusciti a imparare la lezione e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Alla luce di tutto ciò, sarebbe pertanto utopistico e anche un po’ grottesco ipotizzare che la comunità dei videogiocatori riesca ad invertire il trend. Contrariamente a quanto accade in ambiti quali politica, religione, economia e diplomazia dove ogni residua speranza di cooperazione tra i popoli si è tragicamente estinta, noi abbiamo però un vantaggio formidabile: l’oggetto del nostro dibattere non comporta infatti alcun tornaconto economico per le fazioni in guerra. In parole povere nessuno di noi diventerebbe ricco se Nintendo, Sony o Microsoft sbaragliassero definitivamente la concorrenza. Casomai ci si riscoprirebbe tutti più poveri perché, in fondo al proprio cuore, anche il più incorruttibile dei crociati sa bene che il fallimento di ogni singolo brand non può che ledere alla salute dell’intero movimento videoludico. Piuttosto che indugiare in futili posizioni da battaglia, possiamo in tal senso accantonare per un attimo le armi e provare a porci qualche domanda in più, magari iniziando proprio da noi stessi. Invece di relazionarci agli altri gamer sentenziando i soliti slogan di partito, chiediamoci se siamo davvero convinti di quel che diciamo. Piuttosto che zittire chiunque non la pensi come noi e ignorare tutti gli articoli di “opposizione”, cerchiamo di prestare maggiore orecchio alle tesi contrarie. Puntiamo, in definitiva, a trovare un terreno di incontro con i dissidenti, senza limitarci soltanto a cercare conferma ai nostri preconcetti. Abbiamo il privilegio di condividere una passione viscerale e non possiamo sprecare quest’opportunità per soddisfare il preistorico impulso che ci costringe a indossare una casacca. Magari la soluzione a tutti i nostri dissidi risiede proprio nel lasciare le diaspore ai vecchi Sapiens: del resto noi siamo Homo Ludens e forse siamo meglio di così.















