The Last of Us Part I Recensione (PS5): Ancora oggi un capolavoro

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La nostra recensione di The Last of Us Part I, in uscita il 2 settembre 2022 in esclusiva PlayStation 5 e, successivamente, per PC.

Pochi videogiochi hanno saputo infiammare il dibattito social quanto The Last of Us. Lo abbiamo visto con Part II (QUI la nostra recensione) un paio di anni fa, titolo del quale si discute ancora molto, ed è successo di nuovo all’annuncio di questo Part I, anche se per motivi diversi. Allora furono le tematiche inclusive a fare da innesco, con conseguenti accuse di essere un prodotto troppo schierato politicamente, ma anche alcune scelte di trama o di presentazione del gioco (come i trailer montati ad arte) molto forti da parte degli autori, in primis il suo scrittore e director Neil Druckmann (che inizialmente non ha mai gettato acqua sul fuoco della polemica, va detto).

Da lì ebbe inizio il caso di review bombing più grande della storia dell’intrattenimento. Mettete insieme le recensioni utente di Metacritic di tutti i film Marvel, di tutti gli Star Wars, di ogni versione esistente di Fortnite, Minecraft o GTAV, di tutti i dischi di Lady Gaga e Drake e farete fatica a sorpassare quelle di The Last of Us Part II.

È plausibile (ma anche infinitamente triste) pensare che con questo Part I la storia si ripeterà, forse in maniera ancora più violenta (EDIT: per fortuna mi sbagliavo, non è successo NdR). Perché le polemiche, come detto, sono già cominciate fin dalla conferma della sua esistenza: Ma abbiamo bisogno di un’altra versione di TLOU?“, “Ma perché non fanno qualcosa di nuovo?“, “Ma non si vergognano a farlo pagare 80 euro?.

Queste le domande più gettonate da parte dell’Uomo di Facebook, alle quali risponderemo tra poco. A questo esercito di nuovi scettici andranno aggiunti tutti i reduci del conflitto di due anni fa, incattiviti dalla sovraesposizione mediatica di cui gode il brand Naughty Dog e molti dei quali ancora convintissimi, proprio come quei vecchi soldati giapponesi sperduti sulle isole del Pacifico, di non aver già perso la guerra. O che Abby sia una trans.

Di quest’ultimi però, onestamente, ci interessa poco. La serie di The Last of Us è uno dei picchi più alti del videogioco, già riconosciuta e storicizzata come tale dalla stampa specializzata, dai giocatori, dagli sviluppatori e dai creativi di altri settori dell’intrattenimento. Sbattere i piedini per terra o piazzare tutti soddisfatti la reaction di una faccina che ride sui social nei post dove se ne parla non cambierà mai questo fatto, già deciso dalla storia.

Quello che ci interessa qui è invece rispondere alle tanto gettonate domande di poco sopra, e nel frattempo valutare anche il lavoro di svecchiamento svolto sul gioco.

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“Ma abbiamo bisogno di un’altra versione di TLOU?”

Beh, perché no? Innanzitutto bisogna far presente che il gioco è stato tirato a lucido in occasione della prossima uscita su PC, ancora da definirsi temporalmente ma già ufficiale. Inoltre questa rinfrescata non potrà che favorire l’interesse nei confronti della prossima serie TV di HBO. Immaginare un lancio quasi congiunto di serie e versione PC non è affatto improbabile insomma. Quindi, dal punto di vista strettamente commerciale, la mossa ha senso eccome.

Ha senso però pure da un punto di vista artistico. In primis, al contrario di quanto colpevolmente fatto da Rockstar coi Grand Theft Auto, nessuno toglierà dal commercio la vecchia versione, preservandone quindi l’esistenza per chi volesse vivere l’esperienza come all’epoca. In più è l’occasione per dare una continuità tecnica e visiva ai due The Last of Us, strettamente connessi ma separati da parecchi anni di distanza e una generazione di hardware.

Quando parliamo di videogiochi, infinitamente più che per gli altri media, la componente tecnica è un elemento essenziale. Non solo per una questione grafica, che comunque conta, ma anche per quanto riguarda il gameplay e l’interazione stessa. Avere controlli migliori, animazioni più fluide, fisica e IA più avanzate e quant’altro cambia totalmente l’esperienza di gioco, e lo fa in meglio. The Last of Us Part I, portando di peso il gameplay del secondo capitolo al suo interno, migliora la parte giocata in maniera esponenziale. E importandone le animazioni facciali fa lo stesso con la parte narrativa. Ma questi aspetti li approfondiremo nel dettaglio più avanti.

Altro aspetto, per niente meno importante, è quello dell’accessibilità. Le opzioni per consentire di giocare senza problemi anche alle persone con difficoltà visive o motorie di Part II erano straordinarie, e riutilizzarle per Part I apre proprio a tutti la possibilità di godere della serie di The Last of Us nella sua interezza.

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“Ma perché non fanno qualcosa di nuovo?”

Ma Naughty Dog sta già facendo qualcosa di nuovo: infatti sappiamo che stanno lavorando al gioco multiplayer basato su The Last of Us Part II, e sappiamo che Neil Druckmann sta lavorando su qualcos’altro ancora. Il team di Sony è enorme (a Part II hanno lavorato circa duemila persone, anche se nel conteggio sono inseriti pure i team che ci hanno lavorato in outsourcing), e pensare che tutti possano essere impiegati allo stesso tempo sullo stesso gioco significa non avere idea di come funzioni un processo produttivo all’interno di una casa di sviluppo.

Inoltre questo rispecchia il modus operandi di Naughty Dog, perché basta ricordarsi quanto avvenuto all’inizio della generazione scorsa con The Last of Us Remastered. Al contrario di tante remastered, affidate a team esterni, il team californiano decise di lavorarci personalmente, mentre intanto portava avanti pure la lavorazione di Uncharted 4.

Lavorare su remake e remastered, per i team così grandi, non significa perdere tempo ma creare documentazione (utile a tutti i team Sony), conoscere meglio la nuova console e magari anche far amalgamare al gruppo gli sviluppatori più giovani o da poco assunti.

“Ma non si vergognano a farlo pagare 80 euro?”

Qui ce la sbrighiamo proprio velocemente: il lavoro dietro al gioco c’è, si sente, si vede e in nessun modo si può parlare di pigrizia o di scarsa riuscita. Poi sta a ognuno di noi decidere quanti soldi vale la pena spendere in un prodotto, anche in base alle disponibilità economiche. Ricordiamoci sempre che la grande arma a disposizione del compratore è quella di scegliere se aprire o meno il borsello, non tanto la polemica.

Se The Last of Us Part I venderà pochissimo al lancio allora sì, vorrà dire che 80 euro erano troppi. Se venderà bene invece no. Se per voi vale la pena spenderci 80 euro fatelo, se pensate siano più giusti 50, 30, o 10 euro aspettate. Semplice.

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Come detto, il lavoro dietro al gioco c’è e si nota nettamente. Certo, il remake è di quelli fedeli, non aspettatevi quindi stravolgimenti di trama (identica) o di ambientazioni, né parti inedite. Non c’è volutamente alcuna rilettura dell’opera originale: The Last of Us Part I è in tutto e per tutto The Last of Us, solo tanto migliorato.

La prima cosa che salta all’occhio è ovviamente la grafica. Gli scenari, pur mantenendo l’identico level design, sono stati ricostruiti e arricchiti sia negli elementi degli ambienti esplorabili che di quelli sullo sfondo. La sensazione che si ha è quella di muoversi in un mondo ancora più sporco e lasciato in balia dello scorrere del tempo, con una maggiore cura per gli effetti di invecchiamento e incuria, e dove la vegetazione ha reclamato ancora più potentemente ciò che prima era suo.

Anche l’illuminazione è stata radicalmente rivista e resa più credibile, andando a modificare la fotografia generale del gioco, più cupa e realistica. La palette cromatica è ora più simile al punto di arrivo, cioè Part II, dando quella continuità visiva di cui avevamo accennato. Pure gli effetti, così come l’acqua o il fuoco, sono stati rifatti sulla base del titolo del 2020.

La sensazione è proprio quella di trovarsi di fronte a un gioco contemporaneo, e per giunta uno dei più belli mai visti. Perché nonostante siano passati più di due anni dal lancio, The Last of Us Part II (e di conseguenza questa Part I) è ancora lassù nell’olimpo dei videogiochi più belli di sempre da vedere, a litigarsi il posto con Red Dead Redemption 2, Horizon Forbidden West e pochissimi altri.

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Dove invece il titolo Naughty Dog non ha mai temuto confronti visivi (e se chiedete a uno sviluppatore vi dirà che è la cosa più difficile) è nel comparto delle animazioni facciali. Importare dal secondo capitolo i modelli poligonali (EDIT: in realtà i modelli sono qualitativamente simili, ma diversi da quelli di Part II NdR) e le animazioni dei protagonisti ha reso la storia di The Last of Us Part I ancora più potente.

Tra i principali motivi per cui il primo The Last of Us è una pietra miliare infatti c’è la sua narrativa e il suo respiro cinematografico. Se di titoli con una trama bellissima e profonda ce ne erano già stati nella storia dei videogiochi, e se Hideo Kojima (che Druckmann ha sempre stimato) e Naughty Dog stessa (con gli Uncharted) già avevano portato la croce per quanto riguarda la cura estrema nelle sezioni non giocate, nessuno prima di The Last of Us era riuscito ad abbinare a quel livello qualitativo una grande storia drammatica, transizioni perfette tra parte giocata e cutscene, una regia curatissima e performance attoriali credibili non solo per il doppiaggio ma anche per le interpretazioni digitali.

L’umanità dei suoi personaggi, tramite dialoghi eccezionali, un doppiaggio strepitoso e volti finalmente capaci di esprimere un’emozione reale grazie al progresso tecnologico (a volte ci scordiamo che fino a poco più di dieci anni fa i personaggi dei videogiochi quasi non avevano una faccia, o avevano mezza espressione ingessata ed esageratissima) bucava lo schermo, avvicinandosi davvero al cinema con attori reali, pur se blockbuster e molto americano.

The Last of Us fu uno spartiacque insomma, che cambiò significativamente il modo di sviluppare alcuni videogiochi, influenzò quelli a venire (su tutti God of War) e contribuì a farli crescere come mezzo di espressione. Qualche talebano potrebbe affermare che il videogioco non dovrebbe fare il verso al cinema e dovrebbe raccontare solo tramite il suo linguaggio esclusivo, cioè l’interazione, ma qualcuno potrebbe fargli notare che i mezzi espressivi maturano anche grazie alla contaminazione di altri media venuti prima. O che è solo un bene avere diversità di generi e di approcci. Ma probabilmente non capirebbe, e sarà già pronto a lasciare le sue reaction della faccina che ride sui social, incurante di essere stato lasciato a terra dal treno dell’evoluzione del videogioco.

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Importare le stesse animazioni di The Last of Us Part II ha reso più fluido anche il controllo di Joel ed Ellie durante l’avventura, con il non indifferente aiuto dei 60 fps nella modalità prestazioni. Volendo potrete giocare pure in modalità fedeltà, pompando ancora di più dettagli ed effetti, ma limitando il framerate a 30. Il nostro consiglio è quello di giocare a 60fps, ma ognuno scelga in base al proprio gusto (non ho invece potuto testare il VRR per la mancanza di un pannello adeguato NdR).

Il feeling quando si gioca è totalmente diverso rispetto alla versione PS3 o alla remastered, i movimenti sono più precisi, l’utilizzo delle coperture meno macchinoso, il feedback dei colpi sui nemici più reale. In generale, nonostante ci sia più “pesantezza” grazie al nuovo motore fisico, il tutto è in realtà più fluido e piacevole da giocare. L’insieme delle migliorie restituisce insomma una sensazione di gioco infinitamente superiore alla versione originale, e superiore anche alla maggioranza dei prodotti contemporanei.

Ulteriore nota di merito per l’utilizzo del Dual Sense, che risponde con una delle migliori implementazioni che ci siano mai capitati di provare (anche se Returnal, utilizzandolo come elemento vero e proprio di gameplay, rimane inarrivabile).

Dove The Last of Us “perde”, è giusto in confronto alla sua base di partenza, cioè Part II. C’è poco da dire: che sia stato fatto un lavoro di “collage” attaccando il gameplay, i modelli, le animazioni e l’IA del secondo capitolo al level design del primo si fa sentire.

In primis, questo ha impedito la possibilità di schivare e di strisciare, togliendo sicuramente qualcosa sia alla componente del combattimento corpo a corpo che a quella stealth. Inoltre le mappe di Part II sono più ampie, più verticali e soprattutto studiate ad hoc, fin dalla fase di progettazione, per il tipo di intelligenza artificiale con cui era previsto che gli infetti e i nemici umani ci si spostassero dentro. Quelle di Part I invece, nonostante la nuova IA garantisca comunque benefici enormi rispetto al TLOU originale, sono state pensate all’epoca per un sistema completamente diverso e più primitivo.

Questo si traduce, a volte, in problemi che è normalissimo riscontrare nella maggioranza dei titoli presenti sul mercato, ma non in Part II (salvo eventi davvero molto sporadici), e costituivano una delle sue mille eccellenze assolute. Può capitare insomma che qualche nemico si incastri in un movimento non proprio furbo, o magari che si generi qualche trenino dove è fin troppo facile far fuori i malcapitati uno dopo l’altro. Anche la scorta, che per ovvi motivi di game design è tuttora invisibile agli occhi dei nemici, torna a passeggiare arrogante qualche volta di troppo davanti ai cattivi (non aiutata dal fatto che per alcune sezioni dell’avventura si viaggia in tre persone contemporaneamente, se non quattro).

Questo però, e lo sottolineiamo bene, non significa che non ci sia stato un miglioramento generale significativo, o che The Last of Us Part I sembri vecchio come gameplay. Le “storture” che accadono sono la norma in quasi tutti i videogiochi odierni, e per qualità complessiva è a oggi uno dei migliori titoli in circolazione. Solo che si sente abbastanza bene la differenza con Part II. Ma dopotutto (ovviamente tra i titoli paragonabili) chi non lo perde un confronto diretto nella qualità del gameplay con Part II? Bravi, nessuno.

Se il comportamento umano è molto migliorato ma ha qualche inciampo, tra le note esclusivamente positive ci sono gli infetti. Come detto, al gioco non è stato aggiunto niente, ma di fatto c’è una tipologia di infetti “nuova”. Gli Stalker infatti si comportano adesso come dovrebbero, nascondendosi nel buio e tendendoci agguati. Nell’originale invece, non funzionando granché bene, si limitavano a correrci incontro esattamente come i normalissimi Runner, al punto che molti giocatori nemmeno si accorsero della differenza tra le due tipologie di mostro (presente NdR).

Se la cosa vi spaventa però, sappiate che è possibile regolare a piacimento la difficoltà come in Part II, andando a modificare singolarmente tutti i vari aspetti che la costituiscono. Quantità di danni sopportabili da Joel/Ellie e dai nemici, livello di percezione degli avversari, quantità di risorse ottenibili in giro, tutto può essere regolato in maniera indipendente, dando a chiunque la possibilità di giocare come preferisce. Noi abbiamo affrontato l’avventura a livello Sopravvissuto (il penultimo prima di Realismo), e si è rivelata una sfida soddisfacente, forse giusto un pelo più semplice che all’epoca, probabilmente per via del gameplay meno macchinoso.

Per gli amanti del dolore invece è possibile giocare fin da subito con le opzioni che per Part II vennero aggiunte tramite patch, cioè la morte permanente (totale o per capitolo). Inclusa anche una modalità studiata appositamente per le speedrun, con tanto di tracciamento dei tempi per capitolo.

Corposissimo il comparto degli extra, sbloccabili tramite i punti accumulati finendo il gioco e raccogliendo i collezionabili sparsi per il mondo. Oltre alla solita pletora di cheat e modificatori a audio e video, c’è l’inedita possibilità di cambiare le skin dei protagonisti (ci sono delle belle sorprese) o di visionare i modelli 3D dei personaggi, come in Part II.

È inoltre di nuovo stato incluso l’eccezionale documentario di quasi due ore sulla creazione del gioco (Grounded) e, ultime chicche ma imperdibili per gli appassionati, quattro ore di podcast e il commento audio in-game di, tra gli altri, Neil Druckmann, Troy Baker (Joel) e Ashley Johnson (Ellie).

Molte cose sono cambiate nel mondo dei videogiochi, e ancora di più in quello vero, dai tempi dell’uscita di The Last of Us. Tanto che giocarci adesso, all’indomani di una pandemia, con la consapevolezza degli avvenimenti di Part II e otto anni di vita in più sulle spalle, potrebbe regalare sensazioni ed emozioni molto diverse nel rigiocarlo. Potreste rivalutarlo, potrebbe piacervi di meno, o potreste amarlo ancora di più, questo starà a ognuno di voi deciderlo personalmente.

Quello che invece è immutabile è l’importanza che ha avuto per i videogiochi. The Last of Us è e rimarrà una pietra miliare di questo medium esattamente come il suo secondo capitolo, tappe fondamentali per l’avvicinamento dei protagonisti digitali a quello degli esseri umani reali, e benchmark tecnici, narrativi e ludici dei periodi di appartenenza.

Con The Last of Us Part I Naughty Dog ci restituisce il suo capolavoro in una versione più al passo coi tempi, con una componente narrativa potenziata dalla maggiore qualità delle interpretazioni e un gameplay nuovamente eccezionale, pur non privo di qualche inciampo o rinuncia, come quello di The Last of Us Part II.

Alla fine non è che questo, cioè quello che tutti sapevamo sarebbe stato fin dall’annuncio, senza particolari sorprese. Il punto è che non è affatto poco.

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Ultimo aggiornamento 2023-04-26 / Link di affiliazione / Immagini da Amazon Product Advertising API

RASSEGNA PANORAMICA
Voto
9
the-last-of-us-part-i-recensione-ps5Con The Last of Us Part I Naughty Dog ci restituisce il suo capolavoro in una versione più al passo coi tempi, con una parte narrativa potenziata dalla maggiore qualità delle interpretazioni digitali e un gameplay nuovamente eccezionale, pur non privo di qualche inciampo e qualche dolorosa rinuncia, come quello di The Last of Us Part II.