Avete presente quegli energumeni che bazzicano le palestre col solo scopo di piazzarsi di fronte allo specchio a grugnire mentre cercano di sollevare carichi al di sopra del comune buon senso? Ecco, una specifica frangia dei videogiocatori che si vantano di “giocare duro” sono proprio come loro. Evidentemente certi che ogni aspetto della esistenza costituisca un banco di prova teso a certificare lo status di maschio alfa, scelgono deliberatamente di sottoporsi a una continua serie stress test, finendo col trasformare persino la sana passione per il gioco in una drammatica questione di vita o di morte.
Che lo si adotti per dimostrare qualcosa a sé stessi o a chi gli sta magari intorno, detto approccio non si limita però a intrappolare l’individuo in un vizioso circolo di frustrazione, ma rischia anche e soprattutto di spingerlo sull’orlo di un equivoco fatale, ovvero quello di attribuire connotati gravosi all’unica attività che ci consentirebbe di sfuggire ai dictat della quotidianità. Se Aristotele definiva il gioco come “un esercizio libero da fini pratici, che si svolge per esigenze esclusivamente ricreative”, uno dei padri della psicologia moderna come Carl Gustav Jung rimarcava difatti che, nell’atto di giocare, l’essere umano “accantona ogni vincolo ed aspettativa sociale” per dedicarsi “all’esplorazione della propria creatività”. Entro i confini di quest’ideale porto franco in cui l’immaginazione e la fantasia si sostituiscono temporaneamente a razionalità ed obblighi di sorta, imporsi vincoli prestazionali equivarrebbe, in tal senso, ad una vera opera di auto-sabotaggio volta a privare l’esperienza ludica della sua intima ragion d’essere, ovvero, il puro e semplice divertimento.
Complici tutta una serie di produzioni sì valide, ma ree di aver stuzzicato la componente ossessivo-compulsiva alla base delle forme più estreme di competitività, negli ultimi anni si è purtroppo diffuso l’errato assunto in base al quale il valore di un videogame sia direttamente proporzionale alla sua difficoltà. Ciò ha favorito una progressiva radicalizzazione di una fetta di pubblico che è arrivata a considerare la sola presenza di opzioni atte a modificare il grado di sfida come una discriminante in grado di compromettere la credibilità di un progetto. A naturale riflesso del fenomeno, molti utenti hanno smesso di giocare da un pezzo, per sottoporsi volontariamente a un’alienante routine di ‘trial and error‘ che presenta maggiori assonanze col lavoro alla catena di montaggio di una fabbrica. Come accade per ogni deriva estremista, i soggetti scivolati nel tunnel non appaiono generalmente consapevoli del problema, ma tendono piuttosto a fare un vanto della propria attitudine. Parimenti, sono soliti deridere chiunque dimostri di preferire esperienze che non ruotino esclusivamente intorno all’onere di confrontarsi con schemi forzatamente punitivi e ostacoli sempre più ostici. A sugello di un’attitudine che rasenta di sovente la soglia dell’autolesionismo, costoro affermano, infine, che sia proprio il reiterato accavallarsi dei fallimenti a fronte di quell’unico successo a divertirli… A maggior ragione, quando esso sopraggiungere dopo ore, se non addirittura giorni di passione.
Di fronte a una tale vocazione al martirio, la tentazione di far spallucce e liquidare il tutto con il consueto “de gustibus” non può che essere forte, ma ci sono casi in cui non si può lasciar correre. Nel momento in cui questa distorta concezione dell’intrattenimento assurge a trend, è naturale vi possano essere ricadute sul lavoro degli sviluppatori. Non è ad esempio un mistero che molti di essi abbiano subito pressioni da parte delle community di riferimento affinché i rispettivi videogame non implementassero alcuna opzione di settaggio del livello di difficoltà. Finché vivremo in democrazia, nessuno dovrebbe tuttavia vantare il diritto di imporre restrizioni di alcun tipo, né tantomeno ritenere che l’industria debba piegarsi a folli pretese di elitarismo. Benché alcuni seguitino a credere il contrario, saperci fare ai videogame non è mai stato, non è e non sarà mai indice di intelletto, prestanza ed etica superiori. Va pertanto da sé che non esistano videogiocatori di Serie A e di Serie B, né utenti immeritevoli di godersi un qualsiasi Elden Ring in base al coefficiente di sfida più adeguato alle proprie esigenze.
Gioca e lascia giocare, dunque… Ché a fare la guerra ci pensano già gli altri.