Non tutti i videogame sono opere d’arte, ma il videogame è, in senso assoluto, una forma d’arte equiparabile al cinema, alla fotografia, alla musica e alla pittura. La battaglia per la legittimazione di questo status è durata almeno trent’anni e non può, tra l’altro, dirsi ancora conclusa: persino al giorno d’oggi, nel nostro Paese, occorre ad esempio ribadire il concetto a cicli regolari, onde spegnere sul nascere focolai di sospetto sempre pronti a trasformarsi in roghi dal retrogusto medioevale.
Per vostra fortuna, il tema che affronteremo in questa placida domenica marziana non riguarda, ad ogni modo, i perché e i percome in TV o in Parlamento ci sia ancora chi gridi all’untore ogni qualvolta si parli di questa sfera dell’entertainment; nel momento storico in cui ci troviamo, risulta molto più interessante chiedersi quali responsabilità avrebbero dovuto piuttosto assumersi i critici di settore dal momento in cui il termine videogioco ha iniziato a far rima con espressione artistica.
Un salto evolutivo di questa portata non costituisce del resto un mero cambiamento nominale, ma una metamorfosi profonda, la cui portata è tale da stravolgere i criteri di valutazione alla base di un qualsiasi giudizio. A fronte di quanto continuiamo a leggere nella stragrande maggioranza delle recensioni videoludiche un’opera d’arte non dovrebbe, in altre parole, essere analizzata seguendo i medesimi parametri impiegati per giudicare le prestazioni di un elettrodomestico, giacché questo ne svilirebbe l’essenza mortificando, al contempo, la visione dei suoi artefici.
Come lasciato più volte intendere da autori apprezzati come Ken Levine, Hideo Kojima e David Cage, i tempi sarebbero in effetti abbastanza maturi per sposare un approccio meno tecnico alla recensione, cui faccia seguito l’elaborazione di opinioni basate più sui contenuti di un progetto che sulla rispettiva performance.
Tra le varie obiezioni avanzate da molti altri game designer nei riguardi dei tecnicismi che finiscono per assumere spesso un ruolo preponderante nell’assegnazione di un voto, la principale perplessità riguarderebbe, in ogni caso, l’eccessiva importanza riservata ad elementi quali longevità e dimensioni del mondo di gioco. È opinione crescente che attribuire a questi fattori il potere di determinare l’efficacia di un titolo costituisca un vizio di forma che, a lungo andare, abbia spinto gli utenti a orientare le proprie scelte su presupposti errati come la mera durata dell’esperienza di gioco. Un dettaglio del genere potrebbe magari vantare un proprio peso in ambito commerciale, laddove scoprire quanti chilometri possa percorrere una vettura con un litro di benzina può far davvero la differenza tra un prodotto e l’altro: in ambito artistico un riferimento del genere non dovrebbe invece avere alcuna ragion d’essere, perché le emozioni vanno misurate su scala di intensità e non certo stimate in base alla sola quantità.
Benché impegnativa, detta rivendicazione trova ampia corrispondenza in esempi legati alla valutazione di progetti legate altre forme d’arte. Se la durata di un disco fosse indice del suo valore, i 53:03 minuti di “Quanti Amori” di Gigi D’Alessio permetterebbero a quest’ultimo di imporsi rispetto ai soli 35:27 di “Revolver” dei Beatles e un qualsiasi murales di sei metri per sei infliggerebbe la medesima umiliazione alla Monna Lisa, rea di misurare appena settantasette centimetri per cinquanta tre. Così come nessun critico preparato si sognerebbe mai di pronunciare i propri verdetti sulla base di simili argomenti tesi, altrettanto andrebbe pertanto fatto in ambito videogame e non solo per favorire una maturazione della rispettiva stampa. Concentrarsi sugli aspetti più autoriali di un’opera videoludica, permetterebbe infatti ai critici di aiutare il pubblico a osservare i videogame da punti di vista meno sterili, così da indirizzare le rispettive preferenze verso proposte più creative, sfaccettate e originali.
Si dirà che non tutti i videogiochi possano essere valutati in base a criteri più vicini alla critica artistica, ma ciò non costituisce alcuna contraddizione: se è vero com’è vero che titoli di stampo simulativo come Farm Simulator presentino minori opportunità di approfondimento concettuale, altrettanto accade infatti in letteratura, cinematografia, pittura e musica dove prodotti dal palese intento funzionale convivono con opere dall’immane lignaggio artistico. Il confine che separa la buona critica dalla cattiva critica risiede, in tal senso, nella capacità di individuare l’arte ovunque si possa nascondere e saper puntualmente discernere il valore espressivo di un progetto dai suoi connotati estetici e pratici.