E’ inutile nascondere che prima di scrivere questa recensione di The Legend of Zelda: Tears of The Kingdom, abbiamo avuto lunghe discussioni con i colleghi su cosa ci avrebbe offerto il gioco, su come avrebbero migliorato o evoluto la formula che conoscevamo già: Zelda Breath of the Wild aveva posto nuove frontiere videoludiche e alzato l’asticella qualitativa degli open world, tant’è che solo in pochissimi sono riusciti a replicarne, parzialmente, gli schemi.
La visione dell’ultimo trailer, lasciava intendere che Tears of The Kingdom avrebbe offerto più libertà e più scelta e abbiamo capito che il focus della nostra analisi si sarebbe concentrata proprio sul concetto opposto: quali limiti avrebbero posto gli sviluppatori al mondo di Hyrule? La libertà senza alcun tipo di vincolo, nella vita reale, diventa anarchia ma nel game design significa solo una cosa: collasso strutturale. Ed è proprio questo che abbiamo cercato di fare: trovare falle nella matrix del gioco che ci permettessero di aggirare in qualche modo il sistema…e abbiamo fallito…miseramente.
A questo punto della recensione dovremmo parlare della trama ma, in realtà, dirvi qualcosa di più di quel che si è già visto o intravisto dalle presentazioni sarebbe un peccato. Al di là di questo, le vicende prendono spunto dalla sconfitta della Calamità Ganon ma, sfortunatamente, il mondo di Hyrule non è ancora al sicuro. Nei meandri sotterranei del Castello, si nasconde una inquietante mummia che una volta risvegliatasi, darà il via a una serie di eventi devastanti a catena e una strana sostanza rossa corrosiva si espanderà in tutta Hyrule, il miasma. Una delle conseguenze di questo cataclisma è la scomparsa della principessa Zelda e un Link lasciato ad un destino incerto ma ancora in possesso della propria memoria.
Alle vicende che si dipanano lungo la trama principale, si intrecciano eventi passati che vedono protagonisti il popolo Zonau e la Guerra dell’Esilio. La scrittura come da tradizione resta semplice ma amplia il suo impatto emozionale grazie ad una gestione del narrative design che si piega perfettamente alle esigenze di gioco: molti dei grandi misteri, infatti, si possono scoprire solo attraverso l’esplorazione della mappa e l’esercizio delle meccaniche, ad esempio alcuni frammenti di storia passata sono legati alla ricerca di talune iscrizioni simili a dei geoglifi visibili solo dall’alto.
Ovviamente sono presenti le classiche cutscene e i dialoghi dei tanti personaggi che ci accompagneranno durante l’avventura che arricchiscono ulteriormente un compendio narrativo che sebbene resti piuttosto semplice e non punti alle forti emozioni, riesce a conferire alla trama quel senso di epicità che ci si aspetterebbe da un Legend of Zelda. Vecchi e nuovi protagonisti si uniranno in questa sorta di Compagnia dell’Anello in salsa nintendiana e su questo punto vi lasceremo tutti i dubbi del caso. A ciò si deve aggiungere il sapiente uso della colonna sonora che sottolinea perfettamente ogni situazione sia pacifica che di combattimento. Il comparto artistico resta della stessa qualità e aspetto di Breath of The Wild ma offre anche ambientazioni molto più tetre e oppressive come quelle del sottosuolo di Hyrule.
Il vero cuore pulsante di Zelda: Tears of The Kingdom risiede nella sua struttura generale e risulta essere il più fulgido degli esempi che si possano fare attualmente quando si parla di “Design Elegante” in un open world, riuscendo a superare anche lo stesso lavoro compiuto in Breath of The Wild.
Ma cosa si intende per “design elegante”? E’ un concetto molto noto nell’ambiente dello sviluppo e consiste nell’implementazione di pochissime meccaniche base che siano in grado di generare moltissime dinamiche di gioco. In buona sostanza è un principio non molto dissimile dal “Less is More”, applicato ai videogiochi. Sebbene possa sembrare una operazione semplice, in realtà, in sistemi complessi come i videogames è veramente difficile che si riesca a trovare una quadra che possa farsi carico di un’ intera impalcatura ludica, a maggior ragione in un contesto open-world dove la diluizione dei contenuti può facilmente generare distorsioni del sistema.
E qui ritorniamo al nostro preambolo di recensione, ovvero, la necessità di capire quali potessero essere i limiti che gli sviluppatori avrebbero collocato in Tears of The Kingdom: in Breath of the wild, la stamina e la distruttibilità delle armi erano i paletti principali che venivano imposti al giocatore affinché il design generale potesse auto-sostenersi. La prima istanza determinava quanto Link potesse spostarsi liberamente lungo la mappa e aveva come diretta conseguenza, il dover risolvere un certo quantitativo di Sacrari e la seconda costringeva il giocatore a esplorare per recuperare nuove e più potenti armi.
In termini di design erano soluzioni assolutamente condivisibili ma che hanno trovato resistenze da parte del pubblico che li ricorda più come difetti che limiti positivi di sistema. In realtà, queste lamentele hanno avuto un impatto positivo sul team di sviluppo che ha progettato nuove meccaniche base che hanno superato questa impasse con estrema intelligenza e sono le fondamenta del “Design elegante” di Tears of The Kingdom: Ultramano, Reverto, Compositor, Ascensus e un’altra meccanica che vogliamo tenervi nascosta.
Prima di procedere all’analisi del gameplay, dobbiamo necessariamente far presente che Zelda: Tears of The Kingdom è un gioco a vocazione fortemente sistemica, ovvero, non è possibile enucleare la singola componente meccanica dall’intero quadro ludico perché da essa dipendono tutti gli elementi di gameplay: parlare di Ultramano come potere meramente manipolatorio e creativo non fa comprendere la portata significativa che esso comporta sul sistema di esplorazione della mappa, infatti essa permette anche la costruzione di mezzi di locomozione o ponti di fortuna oltre che spostare oggetti di vario genere.
Anche Reverto che permette un rewind degli oggetti, possiede una duttilità che può essere sfruttata sia nel combattimento, ad esempio rimandando al mittente massi lanciati contro di noi, sia nell’esplorazione utilizzandolo come mero potere ascensionale. Questa versatilità consente al giocatore di amministrare la propria mobilità in alternativa all’uso di pozioni o cibi e sopratutto della stamina. La conseguenza più palpabile è una rivisitazione concettuale del ruolo dei Sacrari che risultano essere un ancor di più efficace strumento di apprendimento dei differenti layer di profondità meccanica che il gioco offre. Vi consigliamo vivamente di affrontarli più come una sorta di tutorial avanzato, piuttosto che una seccatura.
Non vi nascondiamo che se non fosse stato per alcuni di essi, molte delle soluzioni folli che abbiamo messo in campo non le avremmo prese in considerazione, come il costruire un aereo a reazione per centrare in pieno un nemico davanti ad una entrata. Potevamo fare diversamente? Ovviamente si, ma era possibile farlo e lo abbiamo fatto con enorme soddisfazione e non possiamo immaginare cosa i giocatori potranno inventarsi dall’uscita ai prossimi mesi.
Un discorso a parte vale per Compositor, l’abilità che consente di modificare l’equipaggiamento che risponde proattivamente al problema della distruttibilità delle armi. Restano rompibili come regola base di gameplay ma possono essere rafforzate sia in termini di resistenza che di attacco e vale per tutti gli armamenti, scudi compresi. Inoltre è possibile infondere temporaneamente elementi come fuoco o elettricità a patto di avere materiali specifici da poter attaccare e il quantitativo di oggetti esistenti ad Hyrule vi da la misura di quanto sia enorme il potenziale di Compositor, tanto da poter avere a disposizione un intero arsenale dedicato alle situazioni più disparate.
In generale, il combat system resta molto basico nei suoi fondamentali ma arricchendosi con la manipolazione Compositor, consente a Zelda: Tears of The Kingdom sia di mantenere prioritario il core pillar esplorativo dell’IP, sia tamponare in modo intelligente quelle che erano le criticità ravvisate dai giocatori aumentandone il “tasso di creatività” che lo fa risultare giocosamente soddisfacente.
In buona sostanza, il team piuttosto che intervenire sulla durabilità dell’equipaggiamento, ha intelligentemente lavorato sull’efficacia dello stesso. Tant’è che nel tentativo disperato di rompere il gioco, ci siamo ritrovati ad affrontare il boss finale con ben poche risorse e proprio grazie a Compositor siamo riusciti a ribaltare positivamente una situazione di assoluta emergenza ludica.
Le bossfight sono composte da grandi enigmi ambientali da risolvere per poi arrivare agli scontri finali che si caratterizzano da varietà e sopratutto da specificità elementali del luogo della battaglia. Ogni volta, ci sarà un companion dotato di peculiari abilità, utilizzabili sia nella fase di risoluzione degli enigmi sia in combattimento. L’ultima bossfight offre un finale di avventura degno di essere ricordato soprattutto nella parte conclusiva e non possiamo dirvi di più.
Al contrario di quanto si possa pensare, l’abilità Ascensus è la più critica delle meccaniche presenti in Tears of The Kindom. Essa consente al giocatore di attraversare muri in altezza, ed è stato il potere che più ci preoccupava quando è stato mostrato nell’ultimo trailer del gioco. Potenzialmente Ascensus poteva letteralmente “spaccare” il level design del gioco. In realtà, gli sviluppatori ne hanno fortemente limitato l’uso ma queste restrizioni sono state nascoste magnificamente grazie ad una gestione degli spazi e dell’environment di altissima qualità. In campo aperto, i paletti a questa abilità vengono celati nella composizione delle alture montuose consentendolo all’interno di grotte o alcune sporgenze e lasciando un uso libero nelle varie strutture come accampamenti o torri di avvistamento militari.
Negli spazi interni, i level designer hanno utilizzato accorgimenti prettamente architettonici, ad esempio tetti particolarmente elevati in altezza, che restituiscono un colpo d’occhio che distoglie l’attenzione del giocatore dalle restrizioni su Ascensus. In poche parole, il trucco c’è ma non si vede.
L’intero quadro fin qui descritto va completamente integrato nel complesso degli enigmi ambientali che riescono sempre a stimolare la materia grigia del giocatore, in modi assolutamente inaspettati e il principio di agency brilla come non mai. Che cos’è l’agency? Per riassumere, indica il ventaglio di possibilità, scelte e capacità di agire a disposizione del giocatore ed è uno dei cardini primordiali del ludo. Generalmente, questa agency viene pesantemente plasmata ed indirizzata in base a ciò che lo sviluppatore necessita di farci vivere come esperienza, il che non è un errore. In Tears of The Kingdom, il player viene assecondato nelle sue necessità di scoperta con la grazia di non farlo sentire guidato, o peggio, addestrato grazie ad una gestione della proiettività, dell’iterazione e della pratica ludica del giocatore assolutamente magistrale.
In questa IP, Link diventa un puro strumento virtuale con cui noi agiamo su Hyrule. Tears of The Kingdom possiede uno dei migliori onboarding (tutorial) in circolazione sia dal punto di vista dell’immersività nel contesto sia tecnicamente nella sequenza delle meccaniche insegnate. Il gioco decide di ambientare i suoi primi passi proprio in cielo, tra le nuvole, dove Link è pronto a diventare un “demiurgo” in pochissime ore. Tutto è nelle vostre mani, non resta che buttarvi e plasmare la vostra esperienza.
Potremmo continuare a scrivere paginate di analisi sul gioco senza comunque arrivare ad una conclusione soddisfacente per chiunque abbia il compito di raccontare il videogioco. Tears of The Kingdom è un gioiello di design che restituisce la purezza e l’essenzialità del giocare. In questo Zelda, le torri vi lanciano letteralmente in aria e voi, galleggiando nell’aria, potete vedere il mondo di Hyrule ai vostri piedi e sta solo al giocatore scegliere cosa fare. Questo è un dettaglio apparentemente insignificante, tra i tanti che l’opera offre, ma sottolinea quanto i creatori di questa IP siano in sintonia con lo scopo del gioco che hanno costruito.
Più in generale, sono presenti tutti i tipi di collezionabili e missioni secondarie di vario genere che da sempre hanno caratterizzato la serie di Zelda. Ciononostante, non vi nascondiamo che qualcosa non ci ha convinto del tutto. In particolar modo la mappa dedicata al sotttosuolo che, nelle prime battute, ci è sembrato un mero riempitivo neanche troppo ben calcolato ma dopo aver acquisito un certo companion, tutto ritorna nei binari.
A nostro parere, questo è il vero elemento di criticità di Tears of The Kingdom: l’impatto iniziale è assolutamente stupefacente ma l’esplorazione del sottosuolo richiede una preparazione molto attenta, soprattutto perché completamente immersi nel buio. Sebbene sia possibile illuminare grandi porzioni di mappa con l’attivazione di specifici alberi, usare determinate pozioni o utilizzare particolari fiori luminescenti, l’esplorazione può diventare frustrante se non fatta in compagnia di un particolare personaggio anche in relazione al fatto che molti interessanti misteri si celano in questo caratteristico livello. Un elemento che secondo noi poteva essere gestito meglio, alla luce della molteplicità d’approccio alla mappa di gioco.
Per quanto riguarda la mera consultazione dei menu, qualche miglioramento poteva essere fatto ma, considerando che il gioco entra automaticamente in pausa, non crea particolari problemi. Anche la mappatura dei tasti poteva avere qualche aggiustamento di UX ma deve necessariamente fare i conti con quella che è la natura ibrida della console stessa che pone dei limiti oggettivi che ogni giocatore Switch conosce. È presente il doppiaggio e i sottotitoli in italiano. Da un punto di vista tecnico, il gioco non presenta alcun tipo di problema, neanche di framerate che resta solido anche nelle fasi più concitate o più spettacolari.
The Legend of Zelda: Tears of The Kingdom non fa che evolvere e migliorare quel che il suo predecessore ha compiuto in termini di design nella progettazione e sviluppo delle mappe open world. Se Breath of The Wild ha rivoluzionato il modo di vivere l’esplorazione nei videogiochi, The Legend of Zelda: Tears of The Kingdom recupera quella Hyrule, la stravolge e la eleva a livelli di giocabilità assoluti.
L’opera che ci viene consegnata risulta essere una vera e propria masterclass di game design, con cui ha fissato ben più elevati orizzonti creativi e tecnici. Se già Zelda: Breath of The Wild è risultato uno scoglio durissimo con cui competere, Tears of The Kingdom pone obiettivi ancor di più difficili da emulare. Al netto delle pochissime perplessità, nel suo complesso, il titolo si pone come uno dei massimi picchi tecnico-artistico esistenti sul mercato videoludico e non può che essere premiato con il massimo dei voti.
The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom è in arrivo in esclusiva su Nintendo Switch il 12 maggio 2023.