La nostra recensione di Tiny Tina’s Wonderlands per PlayStation 5. Buona lettura.
Borderlands, mai come prima, si è ritrovato a dimostrare al pubblico di poter fare ancora la voce del leone. Dopo due capitoli sottotono che, più che dividere la fanbase, hanno solo finito per annegarla nel dubbio, il fardello di Tiny Tina’s Wonderlands era quello di riportare indietro chiunque non avesse più fiducia nel looter shooter Gearbox.
Contemporaneamente, costruendo una nuova base di utenza grazie a un cambio repentino di setting. Dallo sci-fi più puro ci ritroviamo adesso nel fantasy medievale (seppur con tantissime sporcature futuristiche) e con la scusante di una mortale partita a Dungeons & Dragons ci si lancia in una quest d’altri tempi per sconfiggere un potente guerriero stregone.
I fan di vecchia data sicuramente ricorderanno questa idea: l’avventura da tavolo del folle personaggio secondario di Borderlands è già stata protagonista di una delle espansioni di Borderlands 2, solo che a questo giro le è stato dedicato un gioco intero. Tiny Tina’s Wonderlands è, a conti fatti, un semplice spin-off; in alcun modo prosegue le vicende del terzo capitolo e, sotto questo aspetto, i fan dovranno aspettare ancora un bel po’ prima di ammirare qualche altra vicenda dalla Cripta. Ma non per questo andrebbe sottovalutato.
Forte di una base solidissima che nel corso degli anni è stata solo rifinita, Wonderlands ci catapulta in territori sì familiari, ma abbastanza intelligenti da riconoscere dove urgevano miglioramenti. E seppur non sia presente il numerino 4 dopo il titolo, in un certo senso possiamo parlare davvero di un Borderlands 4 in carne e ossa. Non si impegnerà chissà quanto nel fare un vero salto di qualità, ma i lifting son così numerosi e mirati che, possiamo già dirlo, potremmo ora trovarci di fronte al miglior capitolo della saga in assoluto.
Partendo dal presupposto che Tiny Tina’s Wonderlands mantiene tutti i capisaldi della saga e che il core gameplay di fondo – così come il suo loop – non siano stati intaccati di una virgola, è facile come uno dei contraccolpi più grandi restituiti da questo enorme senso di familiarità sia il retrogusto di un “gioco bloccato nel tempo’” L’obiettivo di questo mini-seguito, infatti, è chiaramente quello di provare a fare meglio ciò che già abbiamo visto in passato, piuttosto che reiventare da zero la ruota.
Anche, e soprattutto, per imposizioni di budget e per una natura cross-gen che gli vietano un vero salto di qualità persino in occasione della nuova generazione. Questo è il dente che vogliamo subito toglierci, a dirla tutta: all’infuori di una certa mancanza di coraggio, le meccaniche di fondo son state così rifinite che è davvero difficile volergli male. Chi ha amato Borderlands – i veri Borderlands – in passato, potrebbe trovare in Wonderlands un nuovo parco giochi personale. Chiunque non sia mai riuscito ad entrare nell’ottica del looter shooter Gearbox, invece…a questo giro potrebbe persino ricredersi.
Uno dei lavori più grandi che Wonderlands fa sulla sua struttura di base, in realtà, è proprio sul ritmo. L’abbandono delle zone open world (o sandbox) e la sparizione dei veicoli potrebbe risultare in uno shock per i veterani, ma non si tratta affatto di un passo indietro. Ciò che il titolo fa, sostanzialmente, è rimuovere ogni intralcio o allungamento di sorta, così come ogni spostamento inutile, e mettere al centro della scena le sole e semplici battaglie.
Lo spin-off di Tiny Tina non ha punti morti, mentre la stragrande maggioranza dei dialoghi diventa di accompagnamento alle scampagnate: ciò che più funziona è ora protagonista assoluto e, nonostante in futuro ci piacerebbe vedere un vero miglioramento sotto il lato esplorativo, il compromesso trovato funziona ed eleva i suoi cavalli di battaglia.
Una sorta di overworld c’è, in realtà, e parliamo di una mappa in piccola scala in cui è possibilità spostarsi da un’area all’altra o incappare in incontri casuali, un po’ come accadeva nei vecchi JRPG. Nulla di particolarmente esaltante o geniale, ma nasconde quel giusto quantitativo di chicche da spingere comunque il giocatore a batterla centimetro per centimetro.
Lo stesso vale per le mappe classiche, fra le più ampie e complesse della serie, spesso capaci di stuzzicare l’animo platform del gioco con una maggiore verticalità e puzzle da completare. Piccola ma indovinata aggiunta sono i dadi, poiché trovarne uno aumenta il drop rate generale. Questo fa sì che ci sia sempre un motivo valido per guardarsi attorno, e il fatto che ci siano 260 di questi oggetti sparsi per le terre partorite dallo strano cervello di Tina, garantisce quasi sempre che la vostra curiosità venga ricompensata.
Si tratta di un incentivo migliore delle semplici casse, poiché agiscono da investimento sul lungo periodo sempre rilevante e aumentano il grado di controllo sulla qualità del loot da parte dei designer: ora sanno quanti dadi realisticamente dovreste avere, e che vi dovete sbattere per avere un’arma epica e leggendaria, anziché sperare che una progressione automatica delle probabilità regga per tutta l’avventura.
L’aspetto più debole di Wonderlands è, forse, la sua narrativa. O, per essere più precisi, la mancanza di quest’ultima. Per quanto i dialoghi siano taglienti e risultino fortemente migliorati dall’insipido terzo capitolo, l’intera vicenda è più paragonabile a una serie infinita di gag tra i protagonisti al tavolo di gioco – straricca di altalenante fan service, per giunta – che a un’avventura vera e propria.
La mancanza di un filo conduttore forte che faccia da collante alle varie battaglie, così come dei personaggi secondari che possano lasciare il segno, vanifica in parte l’ottima idea di cambiare setting. Senza entrare in spoiler, un’analisi tematica di fondo rivela concetti interessanti, ma la mancanza di focus nello sviluppo del cast, un cattivo che rasenta la mera espressione di un’idea più che un vero elemento narrativo e una messa in scena spesso semplicistica impediscono ai messaggi di fondo di arrivare con la giusta forza.
E, alla fine della fiera, è difficile dire che Wonderlands riesca a sfruttare questa nuova ambientazione appieno come magari avevano fatto i suoi predecessori. La comicità più randomica ha sempre il sopravvento sul resto, anche sui pochi momenti seri, ed è un cambio di stile che magari non tutti finiranno per apprezzare. Ma che, forse, più si adatta a rispecchiare una mente instabile e frammentata come quella della piccola Tina.
In tutto ciò, la parte ruolistica è forse quella che ne è uscita più forte da questa riprogettazione. La possibilità di unire due classi a piacere espande moltissimo le possibilità di build del proprio protagonista, mentre un rinnovato utilizzo di alcuni strumenti apre a nuovi orizzonti tattici che, a dirla tutta, speriamo di rivedere anche nei seguiti. Un esempio lampante è la sparizione delle granate in favore di veri e propri incantesimi, tutti diversi tra loro.
In generale, il titolo è sembrato infinitamente più bilanciato del predecessore, sia nella difficoltà che nel drop degli oggetti, e la sensazione è proprio quella di ritrovarsi di fronte a un Borderlands 3 meno rushato e infinitamente più ponderato. Anche e soprattutto nella sua gestione dell’end-game.
Come ogni Borderlands che si rispetti, anche Wonderlands fa della sua avventura principale una sorta di giro di rodaggio: se una quindicina di ore sono abbastanza per vedere i titoli di coda, è ciò che troviamo successivamente ad essere il vero succo dell’offerta. Ancora, questo era un aspetto in cui il più recente capitolo zoppicava anche troppo, e dimostra come il team di sviluppo sia riuscito a tenere a cuore i feedback degli utenti per migliorare – o rimuovere – tutto ciò che tratteneva il vero potenziale della formula.
Come dicevamo, Tiny Tina’s Wonderlands sarà anche uno spin-off senza troppe pretese, ma alla fine della fiera migliora ogni singolo aspetto dei prequel con un’intelligenza che forse neanche ci saremmo aspettati. L’unica nota stonata, probabilmente, è il maggior impegno sul combattimento corpo a corpo. Non che evolvere anche quell’aspetto sia sbagliato, ma ora come ora ci ritroviamo con centinaia di armi ed abilità da mischia che, a causa di un feeling ancora legnoso, non ci si sente mai spronati a utilizzare.
In ogni caso, la maniera in cui unisce comicità, incarichi primari, quest secondarie e statistiche – rifinendo persino il feeling da sparatutto in prima persona – va a creare uno sparatutto-GdR-looter solido e divertente da giocare persino se non si va a scavare troppo a fondo; un prodotto a strati che può divertire tanto il giocatore casuale quanto l’hardcore player che vuole spaccarsi fino a notte fonda per mesi e mesi.
Interessante l’introduzione di veri e propri dungeon randomici, con tanto di retrogusto da roguelite, che fanno impennare il contatore della longevità verso vette totalmente nuove per la serie.
Come detto, il limite sostanziale della produzione si rivela essere l’età del suo stesso scheletro, sostanzialmente la mancanza di novità ed espansioni di grande portata in ciò che permea quasi tutto il gameplay: le sezioni di combattimento. Nonostante l’introduzione degli incantesimi, il sistema di movimento e il sistema delle skill rimangono fondamentalmente ancorati a stilemi di dieci anni fa, quando si tratta di avere armi in mano.
Di per sé rimane un core solido, validissimo e incalzante, che non ci sentiamo di svalutare troppo, ma nel suo voler porre “sul giusto binario” la serie, il suo limite è quello di non cambiare le dinamiche di ciò che compone tre quarti dell’avventura. Dunque, gli scontri più concitati e le boss fight più elaborate (la varietà delle loro meccaniche è comunque discreta, se si parla della storia principale) restituiscono una mancanza di controllo che ormai sarebbe il caso di superare. In quei frangenti il gioco si trasforma in un delirio di effetti visivi e proiettili svolazzanti di difficile gestione, e forse meccaniche come un dash o qualche mezzo di difesa avrebbero giovato alla strategia.
Eppure, Tiny Tina’s Wonderlands qualche osso lo cambia e lo aggiusta, al punto da cristallizzare del tutto una nuova forma di endgame che sarebbe il caso riprendere per Borderlands 4: le Chaos Chambers. Tre vite, una serie di arene procedurali, la possibilità di scegliere modificatori che complichino la sfida in cambio di maggiori risorse e un boss alla fine. Questa è la ricetta, e funziona. Va detto che il sistema procedurale si dimostra un po’ primitivo, e si limita a concatenare una serie di arene statiche ma in ordine diverso. Non significa che la varietà sia insufficiente, ma non si tratta di un funzionamento del tutto analogo a quello che ci si aspetterebbe da altri titoli con dungeon casuali.
A restituire un po’ di vita, la presenza di modificatori selezionabili randomicamente, che possono fortificare i nemici in cambio di maggiori cristalli (la valuta con la quale otterrete bottino a fine sessione). Inoltre, quasi ogni stanza viene con una sfida secondaria per un ulteriore bonus alla ricompensa, e si spazia dalla distruzione o protezione di una statua, fino all’eliminazione in corpo a corpo dei nemici. A tal proposito, proprio le mancanze del corpo a corpo non si sposano del tutto con questa variabile, specie nelle sfide più intense dove avvicinarsi significa praticamente condannarsi a morte. Alla fine, Wonderlands rimane uno sparatutto, e va ricordato.
Qualche ripetizione dunque, ma nulla di grave e, anzi, il sistema sottintende un numero di pregi rispetto al passato. Innanzitutto, in una serie che faceva del suo endgame arene con un boss o al limite percorsi fissi da ripetere, una modalità simile può considerarsi un punto di svolta. Inoltre, si presta facilmente al supporto post-lancio in quanto, come dichiarato da Gearbox, i contenuti del season pass entreranno nel pool di generazione casuale una volta completati, il che li rende doppiamente utilizzabili nell’ambito della rigiocabilità.
Fra l’altro, è proprio l’equilibrio nella rigiocabilità a venir migliorato: per svariati capitoli, raggiungere un drop rate e un numero di skill points decenti significava ripetere la storia almeno una seconda volta, se non una terza. Invece, il mantenimento dei “livelli Chaos” del terzo capitolo permette di aggiustare difficoltà, rewards e progressione della classe mano a mano, tutto nella stessa run.
Ad aggiungersi, per passare a un livello Chaos superiore, si rende necessario completare sfide di difficoltà crescente nelle Chaos Chambers, il che impedisce a sbilanciamenti nelle build (sicuramente presenti, come in tutti i Borderlands) di disintegrare la progressione saltando interi livelli. Un drop rate elevato va guadagnato gradualmente e di conseguenza anche la possibilità di – prima o poi – distruggere il gioco.
Un tale approccio all’endgame, unito al nuovo sistema di classi modulabili, permette di godere molto meglio della totalità dei contenuti e delle build senza ripetere le stesse storie e risentire gli stessi dialoghi. Anche prendendo il capitolo più user-friendly, il terzo, per provare una nuova classe era necessario resettare il gioco, il che significava doverlo fare fino a quattro volte. Adesso, potete cambiare classe secondaria e con essa il vostro stile di gioco senza troppi fronzoli. Inoltre, le Chaos Chambers non si fanno mancare l’equivalente dei “raid bosses”, al contrario del suo predecessore. Nascosti dietro alcuni puzzle, attendono sfide che sarebbe meglio non affrontare da soli, e che costituiscono l’ostacolo ultimo al vero completamento del gioco.
Come accennato, alla fine della run procedurale potrete raccogliere dei premi, in un sistema più organizzato che vi permetta di costruire meglio build precise. Difatti, potrete dare in pasto i cristalli ottenuti a delle statue di conigli (sì, conigli), ognuno specifico per un certo tipo di equipaggiamento, il che permette un grind ancora basato sulla fortuna, ma senza un turbine eccessivo di possibilità.
Per i più attenti alle statistiche tornano le Consacrazioni, in questo caso chiamati “Incantamenti”, riveduti e corretti. Non più bonus enormi in grado di fungere da barriera alla giocabilità di chiunque non avesse quelli giusti – trasformando il grinding in pura ricerca di perk anziché di armi – ma potenziamenti modesti capaci di far la differenza senza rendersi necessari. A maggior ragione, la presenza fin da subito di una macchina in grado di cambiare gli Incantamenti sulle armi per un costo sempre crescente, permette una gestione flessibile dell’equipaggiamento.
Insomma, nonostante alcuni limiti che dovranno essere affrontati in seguito per raggiungere il vero compimento della saga, Wonderlands getta alcune nuove basi e idee funzionali, ed è una cosa non sottovalutabile considerata la natura secondaria del progetto.
Tiny Tina’s Wonderlands si sarà anche presentato come un timido spin-off in attesa della vera portata principale ma, ve lo assicuriamo, sottovalutarlo o addirittura saltarlo è un vero e proprio peccato capitale. Questo perché, al netto di un forte desiderio conservativo di fondo, è a oggi il miglior Borderlands sul mercato.
Divertente tanto da giocare quanto da approfondire nelle sue infinite build, statistiche ed end-game, Wonderlands pecca principalmente in una palese mancanza di ambizione; mancanza che viene controbilanciata, e alla grande, da tutto ciò che di ludico si può trovare nell’opera. Resta da capire magari quanto verrà supportato in futuro, o quanto manchi effettivamente a Borderlands 4.
Tra un anno soltanto potremo parlare di vero successo o meno ma, nel frattempo, non siamo riusciti a non goderci le decine di ore spensierate che questo piccolo seguito ci ha donato. “Piccolo” solo sulla carta, perché in realtà ha un cuore e un cervello grandi come un grattacielo.