“Incredibile, sembra un film!”
Ai tempi in cui l’Amiga 500 regnava sovrana e le stanzette di migliaia di ragazzi pullulavano di floppy dalle etichette rigorosamente compilate a penna, era così che usavamo certificare il valore di un videogame. Spesso legata alle prestazioni grafiche piuttosto che all’intera esperienza di gioco, questa esclamazione rimanda a un contesto storico assai diverso da quello attuale, in cui gli sviluppatori guardavano al cinema come preziosa fonte d’ispirazione e il pubblico inquadrava i film come la Terra Promessa delle emozioni su cui, un giorno magari lontanissimo, i videogiochi avrebbero infine messo piede.
Con la complicità di un processo evolutivo tanto repentino quanto radicale, il rapporto di sudditanza tra i due medium sarebbe tuttavia cambiato in tempi straordinariamente brevi, risultando in una netta inversione dei ruoli: da molti anni a questa parte è difatti Hollywood a trovare nell’universo del gaming molte delle risorse creative che permettono alla Movie Industry di sopravvivere.
Logicamente, questo processo non si completò nell’arco di una sola notte: in principio, i film ispirati ai videogame finivano anzi per risolversi in operazioni low-budget di scarsa efficacia come accaduto ad esempio con Double Dragon, Super Mario Bros. e Street Fighter. Col tempo, gli standard qualitativi di questa particolare forma di crossover andarono tuttavia aumentando progressivamente, fino a convergere in un punto di svolta che molti identificano con la première di Final Fantasy: The Spirits Within. Pur rivelandosi un flop multimilionario, l’adattamento diretto nel 2001 da Hironobu Sakaguchi suggerì difatti ai magnati della celluloide che la platea composta da adolescenti e teenager non fosse solo sensibile a questo genere di operazioni, ma anche tanto vasta da garantire ampie opportunità di profitto.
A stretto giro di posta, le sale cinematografiche di tutto il mondo iniziarono così ad accogliere un numero sempre maggiore di tie-in, molti dei quali coinvolgevano stavolta attori di grido come Angelina Jolie per quanto concerne la mini-serie di Lara Croft: Tomb Raider; Milla Jovovic per la saga di Resident Evil, Dwayne Johnson per Doom e Jake Gillenhaal per Prince of Persia. Sebbene non tutti i lungometraggi citati colsero nel segno, questa seconda ondata di crossover consolidò un trend positivo, seminando i frutti che, alla lunga, hanno permesso a Un Film Minecraft di conquistare i vertici del box office mondiale.
Di fronte a un successo insindacabile che, statene certi, coinciderà con un ulteriore incremento di produzioni a tema, molti videogiocatori hanno levato i calici al cielo come a celebrare una conquista epocale. Al di là di ogni facile entusiasmo, languono tuttavia gli estremi di un grande equivoco reo di attribuire al trionfo di cui sopra i toni di una mera vittoria di Pirro. A ben vedere, la vetta su cui Un Film Minecraft ha piantato la bandiera del gaming non rappresenta più un obiettivo strategico chissà quanto rilevante. Se all’inizio degli anni duemila la trasposizione cinematografica poteva essere percepita come l’unico format in grado di elevare la spettacolarità dei videogiochi a parametri idealistici, oggi rischia piuttosto di comprimerne la visione. In base agli standard assicurati dai sistemi da gioco attuali sia in termini tecnici che concettuali e, soprattutto, in relazione al corrispettivo fattore di interazione, un buon videogioco contemporaneo assicura del resto un’esperienza molto più completa, profonda e stratificata di quella assicurata da un film. Ma allora perché continuiamo a trovare esaltante la prospettiva che il nostro titolo preferito possa un giorno approdare sul grande schermo? Come spesso accade di fronte a questo tipo di interrogativi, esistono diverse risposte degne di considerazione. Dal nostro punto di vista, una delle più convincenti rimane, ad ogni modo, legata all’incondizionata influenza del retaggio culturale: benché, a livello inconscio, saremmo tutti consapevoli del sorpasso concettuale avvenuto tra i due medium, molti di noi faticherebbero, ovvero, a metabolizzarne le conseguenze. Non riuscendo pertanto a emanciparci da una concezione tradizionalista dell’intrattenimento, continuiamo in tal senso a inquadrare il crossover cinetelevisivo come unico strumento in grado di legittimare la validità artistica del videogame.
Se tutto ciò corrispondesse al vero, non sarebbe ovviamente improprio parlare di un latente complesso di inferiorità ancora insito nel cuore di tanti gamer ed è proprio per questo motivo che dovremmo rispondere con un sonoro no al quesito posto nel titolo di questo editoriale. Che si sia pronti o meno a riconoscerlo formalmente, il videogioco è diventato ormai autosufficiente e abbastanza adulto da rivendicare un ruolo finalmente primario nella catena alimentare dell’entertainment.