ChatGPT: OpenAI a rischio bancarotta entro il 2024. Il bot costa 700.000 dollari al giorno

È quanto spende l'azienda giornalmente solo per il funzionamento base. Nel computo non vengono considerati né GPT-4 né Dall-E2.

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È quanto emerge da un report di The First Post. ChatGPT, strumento che ha decretato il successo di OpenAI e portato l’azienda sotto gli occhi di utenti, concorrenti, accademici e governi, rischia di decretare anche la fine dell’azienda. Non solo, stando a quanto emerso pare che l’azienda non sia già andata gambe all’aria solo grazie al finanziamento da 10 miliardi di dollari erogato da Microsoft.

The First post cita alcune ricerche condotte da Analytics India Magazine che afferma come Sam Altman – volto di OpenAI – sia riuscito a mettersi in una posizione finanziaria davvero scomoda. Sebbene ChatGPT (così come DALL-E) abbiano esteso la platea degli utilizzatori della tecnologia generativa basata su linguaggio naturale a un numero eccezionale di persone, questo è stato fatto praticamente “a perdere”.

Coloro che hanno deciso di sfruttare la quarta generazione di ChatGPT o alla seconda di DALL-E pagando un canone mensile (vuoi perché professionisti, vuoi perché semplicemente possono permetterselo) sono decisamente pochi e insufficienti a sostenere i costi di tutta la baracca che brucia denaro a ogni prompt di ricerca inserito nel chatbot. Entro il 2024, a meno di nuovi finanziamenti o a meno che Altman non individui una fonte di entrate alternativa o più remunerativa, potremmo dover dire addio alla IA.

Altro merito da riconoscere ad Altman è quello di aver alzato il termometro dell’attenzione sui possibili effetti dell’utilizzo della IA e dell’impatto che questa avrebbe avuto sul tessuto socio economico globale. Se da un lato una parte di studiosi e accademici non proprio disinteressati chiedeva ai governi di imporre limiti alla ricerca (tra i primi firmatari Elon Musk, che poco dopo rivelò di voler lanciare il suo modello di IA), dall’altro maestranze e categorie di lavoratori preoccupati hanno avviato le loro proteste (artisti e figure professionali del mondo dell’intrattenimento in testa). Dubbi anche sull’utilizzo delle informazioni personali. In Italia bloccato dal Garante della Privacy per qualche settimana, negli USA invece al via una vera e propria class action.

FONTEFirstpost